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Giacomo Leopardi - Guerra Dei Topi E Delle RaneGiacomo Leopardi - Guerra Dei Topi E Delle Rane
Language: ita
Work rating: Low


CANTO PRIMO Sul cominciar del mio novello canto, Voi che tenete l`eliconie cime Prego, vergini Dee, concilio santo, Che `l mio stil conduciate e le mie rime: Di topi e rane i casi acerbi e l`ire, Segno insolito a i carmi, io prendo a dire.    La cetra ho in man, le carte in grembo: or date Voi principio e voi fine a l`opra mia: Per virtù vostra a la più tarda etate Suoni, o Dive, il mio carme; e quanto fia Che in questi fogli a voi sacrati io scriva, In chiara fama eternamente viva.    I terrigeni eroi, vasti Giganti, Di que` topi imitò la schiatta audace: Di dolor, di furor caldi, spumanti Vennero in campo: e se non è fallace La memoria e `l romor ch`oggi ne resta, La cagion de la collera fu questa.    Un topo, de le membra il più ben fatto, Venne d`un lago in su la sponda un giorno. Campato poco innanzi era da un gatto Ch`inseguito l`avea per quel dintorno: Stanco, faceasi a ber, quando un ranocchio, Passando da vicin, gli pose l`occhio.    E fatto innanzi, con parlar cortese, « Che fai », disse, « che cerchi o forestiero? Di che nome sei tu, di che paese? Onde vieni, ove vai? Narrami il vero: Ché se buono e leal fia ch`i` ti veggia, Albergo ti darò ne la mia reggia.    Io guida ti sarò; meco verrai Per quest`umido calle al tetto mio: Ivi ospitali egregi doni avrai; Ché Gonfiagote il principe son io; Ho ne lo stagno autorità sovrana, E m`obbedisce e venera ogni rana.    Ché de l`acque la Dea mi partoriva, Poscia ch`un giorno il mio gran padre Limo Le giacque in braccio a l`Eridano in riva. E tu m`hai del ben nato: a quel ch`io stimo, Qualche rara virtude in te si cela: Però favella, e l`esser tuo mi svela. »    E `l topo a lui: « Quel che saper tu brami Il san gl`iddii, sallo ogni fera, ogni uomo. Ma poi che chiedi pur com`io mi chiami, Dico che Rubabriciole mi nomo: Il padre mio, signor d`anima bella, Cor grande e pronto, Rodipan s`appella.    Mia madre è Leccamacine, la figlia Del rinomato re Mangiaprosciutti. Con letizia comun de la famiglia, Mi partorì dentro una buca; e tutti I più squisiti cibi, e noci e fichi, Furo il mio pasto a que` bei giorni antichi.    Che d`ospizio consorte io ti diventi, Esser non può: diversa è la natura. Tu di sguazzar ne l`acqua ti contenti; Ogni miglior vivanda è mia pastura; Frugar per tutto, a tutto porre il muso, E viver d`uman vitto abbiamo in uso.    Rodo il più bianco pan, ch`appena cotto, Dal suo cesto, fumando, a m`invita; Or la tortella, or la focaccia inghiotto Di granelli di sesamo condita; Or la polenta ingrassami i budelli, Or fette di prosciutto, or fegatelli.    Ridotto in burro addento il dolce latte, Assaggio il cacio fabbricato appena; Cerco cucine, visito pignatte E quanto a l`uomo apprestasi da cena; Ed or questo or quel cibo inzuccherato Cred`io che Giove invidii al mio palato.    Né pavento di Marte il fiero aspetto, E se pugnar si dee, non fuggo o tremo. De l`uomo anco talor balzo nel letto, De l`uom ch`è membruto, ed io nol temo; Anzi pian pian gli vo rodendo il piede, E quei segue a dormir, se n`avvede.    Due cose io temo: lo sparvier maligno, E `l gatto, contra noi sempre svegliato. S`avvien che `l topo incorra in quell`ordigno Che trappola si chiama, egli è spacciato; Ma più che mai del gatto abbiam paura: Arte non val con lui, non val fessura.    Non mangiam ravanelli o zucche o biete: Questi cibi non fan pel nostro dente. A voi, che di null`altro vi pascete, Di cor gli lascio e ve ne fo presente. » Rise la rana e disse: « Hai molta boria; Ma dal ventre ti vien tutta la gloria.    Hanno i ranocchi ancor leggiadre cose E ne gli stagni loro e fuor de l`onde: Ciascun di noi su per le rive erbose Scherza a sua posta o nel pantan s`asconde; Però ch`al gener mio dal Ciel fu dato Notar ne l`acqua e saltellar nel prato.    Saper vuoi se `l notar piaccia o non piaccia? Montami in su le spalle: abbi giudizio; Sta` saldo; al collo stringimi le braccia, Per non cader ne l`acqua a precipizio: Così verrai per questa ignota via Senza rischio nessuno a casa mia. »    Così dicendo, gli omeri gli porse. Balzovvi il sorcio, e con le mani il collo Del ranocchio abbracciò, che ratto corse Via da la riva, e seco trasportollo. Rideva il topo, e rise il malaccorto Finché si vide ancor vicino al porto.    Ma quando in mezzo al lago ritrovossi E videsi la ripa assai lontana, Conobbe il rischio, si pentì, turbossi; Fortemente stringevasi a la rana; Sospirava, piangea, svelleva i crini Or se stesso accusando, ora i destini.    Voti a Giove facea, pregava il Cielo Che soccorso gli desse in quell`estremo, Tutto bagnato di sudore il pelo. Stese la coda in acqua, e come un remo Dietro la si traea, girando l`occhio Or a i lidi, or a l`onde, or al ranocchio.    E diceva tra sé: « Che reo cammino, Misero, è questo mai! quando a la meta, Deh quando arriverem? Quel bue divino A vie minor periglio Europa in Creta Portò per mezzo il torbido oceano, Che mi porti costui per un pantano. »    E qui dal suo covil, con larghe rote, Ecco un serpe acquaiuolo esce a fior d`onda. Irrigidisce il sorcio; e Gonfiagote dove la palude è più profonda Fugge a celarsi, e `l topo sventurato Abbandona fuggendo a l`empio fato.    Disteso a galla, e volto sottosopra, Il miserel teneramente stride. Fe` con la vita e con le zampe ogni opra Per sostenersi; e poi, quando s`avvide Ch`era già molle e che `l suo proprio pondo Forzatamente lo premeva al fondo;    Co` piedi la mortale onda spingendo Disse in languidi accenti: « Or se` tu pago, Barbaro Gonfiagote. Intendo intendo L`arti e gl`inganni tuoi: su questo lago, Vincermi non potendo a piedi asciutti, Mi traesti per vincermi ne i flutti.    In lotta, al corso io t`avanzava; e m`hai Tu condotto a morir per nera invidia. Ma degno al fatto il guiderdone avrai; Non senza pena andrà la tua perfidia. Veggo le schiere, veggo l`armi e l`ira: Vendicato sarò. » dice, e spira. CANTO SECONDO Leccapiatti, ch`allor sedea sul lido, Fu spettator de l`infelice evento. S`accapricciò, mise in vederlo un grido, Corse, ridisse il caso; e in un momento, Di corruccio magnanimo e di sdegno Tutto quanto avvampò de` topi il regno.    Banditori correan per ogni parte Chiamando i sorci a general consiglio. Già concorde s`udia grido di Marte Pria che di Rodipan l`estinto figlio, Ch`in mezzo del pantan giacea supino, Cacciasser l`onde a i margini vicino.    Il giorno appresso, tutti di buon`ora A casa si adunar di Rodipane. Stavano intenti, ad udir presti. Allora Rizzossi il vecchio e disse: « Ahi triste rane, Che siete causa a me d`immenso affanno, A noi tutti in comun, d`onta e di danno!    Ahi sfortunato me! tre figli miei Sul più bello involò morte immatura. Per gli artigli del gatto un ne perdei: Lo si aggraffò ch`uscia d`una fessura. Quel mal ordigno onde crudele e scaltro L`uom fa strage di noi, men tolse un altro.    Restava il terzo, quel prode e vago, A me caro ed a la moglie mia. Questo le rane ad affogar nel lago M`han tratto. Amici, orsù: prego: non sia Tanta frode impunita: armiamci in fretta: Peran tutte, ché giusta è la vendetta. »    Taciuto ch`ebbe il venerando topo, Fer plauso i circostanti al suo discorso; « Armi », gridaro, « a l`armi »: e pronto a l`uopo Venne di Marte il solito soccorso, Che le persone a far vie più sicure L`esercito fornì de l`armature.    Di cortecce di fava aperte e rotte Prestamente si fer gli stivaletti (Rósa appunto l`avean quell`altra notte); Di canne s`aiutar pe` corsaletti, Di pelle per legarle, e fu d`un gatto Che scorticato avean da lungo tratto.    Gli scudi fur de le novelle schiere Unti coperchi di lucerne antiche; Gusci di noce furo elmi e visiere; Aghi fur lance. Alfin d`aste e loriche E d`elmi e di tutt`altro apparecchiata, In campo uscì la poderosa armata.    A l`udir la novella, si riscosse Il popol de` ranocchi. Usciro in terra; E mentre consultavano qual fosse L`occasion de l`improvvisa guerra, Ecco apparir Montapignatte il saggio, Figlio del semideo Scavaformaggio.    Piantossi infra la calca, e la cagione Di sua venuta espose in questi accenti: « Uditori, l`eccelsa nazione De` topi splendidissimi e potenti Nunzio di guerra a le ranocchie invia, E le disfida per la bocca mia.    Rubabriciole han visto co i lor occhi Giacer sul lago, ove l`ha tratto a morte Gonfiagote il re vostro. Or de` ranocchi Quale ha più saldo cor, braccio più forte, Armisi e venga a battagliar con noi. » Disse, si volse e ritornò tra` suoi.    Qui ne` ranocchi un murmure si desta, Un garbuglio, un romor. Questo si dole Di Gonfiagote e trema per la testa, Quello a la sfida acconsentir non vuole. Ma de la molestissima novella Per consolargli il re così favella:    « Zitto, ranocchie mie, non più romori: Io, come tutti voi, sono innocente. Non date fede a i topi mentitori: So ben che certo sorcio impertinente, Navigar presumendo al vostro modo, Altro gli riuscì ch`andar nel brodo.    Né per questo il vid`io quando annegossi, Non ch`i` sia la cagion de la sua morte. Ma di color ch`a nocerci son mossi Non è la schiatta nostra assai più forte? Corriamo a l`armi; e di suo cieco ardire Vi so dir che `l nemico hassi a pentire.    Udite attentamente il pensier mio. Ben armati porremci su la riva Là, dove ripidissimo è `l pendio: Aspetteremo i topi; e quando arriva Quella marmaglia, la farem da l`alto Far giù ne l`acqua allegramente un salto.    Così, fuor d`ogni rischio, in poca d`ora Tutto quanto l`esercito nemico Manderem senza sangue a la malora. Date orecchio per tanto a quel ch`io dico, Fornitevi a la pugna, e fate core, Ché non siam per averne altro che onore. »    Rendonsi a questi detti; e con le foglie De le malve si fanno gli schinieri; Bieta da far corazze ognun raccoglie, Cavoli ognun disveste a far brocchieri; Di chiocciola ciascun s`arma la testa, E a far da mezza picca un giunco appresta.    Già tutta armata, e minacciosa in volto Sta la gente in sul lido, e i topi attende; Quando al coro de` numi in cielo accolto Giove in questa sentenza a parlar prende: « Vedete colaggiù quei tanti e tanti Guerrieri, anzi Centauri, anzi Giganti?    Verran presto a le botte. Or chi di voi Per li topi sarà? chi per le rane? Palla, tu stai da` topi: e` son de` tuoi; Ché presso a l`are tue si fan le tane, Usano a i sacrifizi esser presenti E col naso t`onorano e co` denti. »    Rispose quella: « O padre, assai t`inganni: Vadan, per conto mio, tutti a Plutone; Ché ne` miei tempii fanno mille danni, Si mangian l`orzo, guastan le corone, Mi succian l`olio, onde m`è spento il lume; Talor anco lordato hanno il mio nume.    Ma quel che più mi scotta (e per insino Che non me l`han pagata io non la inghiotto) È che il vestito bianco, quel più fino, Ch`io stessa avea tessuto, me l`han rotto, Rotto e guasto così, che mel ritrovo Trasformato in un cencio; ed era novo.    Il peggio è poi che mi sta sempre attorno Il sarto pel di più de la mercede: Ben sa ch`io non ho soldi; e tutto il giorno Mi s`arruota a le coste e me ne chiede. La trama, ch`una tal m`avea prestata, Non ho renduto ancor l`ho pagata.    Ma non resta perciò ch`anco le rane Non abbian vizi e pecche pur assai. Una sera di queste settimane Pur troppo a le mie spese io lo provai. Sudato s`era in campo tra le botte Dal far del giorno insino a tarda notte.    Postami per dormire un pocolino, Ecco un crocchiare eterno di ranocchi M`introna in guisa tal, ch`era il mattino Già chiaro quando prima io chiusi gli occhi. Or quanto a questa guerra, il mio parere È lasciar fare e starcela a vedere.    Non saria fuor di rischio in quella stretta Un nume ancor. Credete a me: la gente Quand`è stizzita e calda, non rispetta Più noi ch`un becco, un can che sia presente. » Disse Palla: a gli Dei piacque il consiglio. Così piegaro a la gran lite il ciglio. CANTO TERZO Eran le squadre avverse a fronte a fronte, E de le grida bellicose il suono Per la valle eccheggiava e per lo monte; Rotava il Padre un lungo inmmenso tuono, E con le trombe lor mille zanzare De la pugna il segnal vennero a dare.    Strillaforte primier fattosi avanti, Leccaluom percotea d`un colpo d`asta. Non muor, ma su le zampe tremolanti Il poverino a reggersi non basta: Cade; e a Fangoso Sbucatore intanto Passa il corpo da l`uno a l`altro canto.    Volgesi il tristo infra la polve, e more: Ma Bietolaio con l`acerba lancia Trapassa al buon Montapignatte il core. Mangiapan Moltivoce per la pancia Trafora e lo conficca in sul terreno: Mette il ranocchio un grido, e poi vien meno.    Godipalude allor d`ira s`accende, Vendicarlo promette, e un sasso toglie, L`avventa, e Sbucator nel collo prende: Ma per di sotto Leccaluomo il coglie Improvviso con l`asta, e ne la milza (Spettacol miserando) te l`infilza.    Vuol fuggir Mangiacavoli lontano Da la baruffa, e sdrucciola ne l`onda; Poco danno per lui, ma nel pantano Leccaluomo e` traea giù de la sponda, Che rotto, insanguinato, e sopra l`acque Spargendo le budella, orrido giacque.    Paludano ammazzò Scavaformaggio: Ma vedendo venir Foraprosciutti, Giacincanne perdessi di coraggio; Lasciò lo scudo e si lanciò ne i flutti. Intanto Godilacqua un colpo assesta Al buon Mangiaprosciutti ne la testa.    Lo coglie con un sasso; e per lo naso A lui stilla il cervello, e l`erba intride. Leccapiatti al veder l`orrendo caso, Giacinelfango d`una botta uccide; Ma Rodiporro, che di ciò s`avvede, Tira Fiutacucine per un piede.    Da l`erta lo precipita nel lago; Seco si getta, e gli si stringe al collo; Finché nol vede morto, non è pago. Se non che Rubamiche vendicollo: Corse a Fanghin, d`una lanciata il prese A mezzo la ventresca e lo distese.    Vaperlofango un po` di fango coglie, E a Rubamiche lo saetta in faccia Per modo che `l veder quasi gli toglie. Crepa il sorcio di stizza, urla e minaccia; E con un gran macigno al buon ranocchio Spezza due gambe e stritola un ginocchio.    Gracidante s`accosta allor pian piano, E al vincitor ne l`epa un colpo tira. Quel cade, e sotto la nemica mano Versa gli entragni insanguinati e spira. Ciò visto Mangiagran, da la paura Lascia la pugna, e di fuggir procura.    Ferito e zoppo, a gran dolore e stento, Saltando, si ritragge da la riva; Dilungasi di cheto e lento lento, Finché per sorte a un fossatello arriva. Intanto Rodipane a Gonfiagote Vibra una punta, e l`anca gli percote.    Ma zoppicando il ranocchione accorto Fugge, e d`un salto piomba nel pantano. Il topo, che l`avea creduto morto, Stupisce, arrabbia, e gli sta sopra invano, Ché del piagato re fatto avveduto, Correa Colordiporro a dargli aiuto.    Avventa questi un colpo a Rodipane, Ma non gli passa più che la rotella. Così fra` topi indomiti e le rane La zuffa tuttavia si rinnovella: Quando improvviso un fulmine di guerra Su le triste ranocchie si disserra.    Giunse a la mischia il prence Rubatocchi, Giovane di gran cor, d`alto legnaggio; Particolar nemico de` ranocchi; Degno figliuol d`Insidiapane il saggio; Il più forte de` topi ed il più vago, Che di Marte parea la viva imago.    Questi sul lido in rilevato loco Postosi, a` topi suoi grida e schiamazza; Aduna i forti, e giura che fra poco De le ranocchie estinguerà la razza. E da ver lo faria; ma il padre Giove A pietà de le misere si move.    « Oimè », dice agli Dei, « qui non si ciancia: Rubatocchi, il figliuol d`Insidiapane, Si dispon di mandare a spada e lancia Tutta quanta la specie de le rane; E `l potria veramente ancor che solo: Ma Palla e Marte spediremo a volo. »    « Or che pensiero è il tuo? » Marte rispose: « Con gente così fatta io non mi mesco. Per me, padre, non fanno queste cose, E s`anco vo` provar, non ci riesco: la sorella mia, dal ciel discesa, Faria miglior effetto in quest`impresa.    Tutti piuttosto discendiamo insieme. Ma basteranno, io penso, i dardi tuoi. I dardi tuoi che tutto il mondo teme, Ch`Encelado atterraro e i mostri suoi, Scaglia de` topi ne l`ardita schiera; E a gambe la darà l`armata intera. »    Disse; e Giove acconsente, e un dardo afferra: Avventa prima il tuon, ch`assordi e scota E trabalzi da` cardini la terra; Indi lo strale orribilmente rota; Lo scaglia; e fu quel campo in un momento Pien di confusione e di spavento.    Ma il topo, che non ha legge freno, Poco da poi torna da capo, e tosto Vanno in rotta i nemici e vengon meno. Ma Giove, che salvarli ad ogni costo Deliberato avea, gente alleata A ristorar mandò la vinta armata.    Venner certi animali orrendi e strani, Di razza sopra ogni altra ossosa e dura: Gli occhi nel petto avean, fibre per mani, Il tergo risplendente per natura, Curve branche, otto piè, doppia la testa, Obliquo il camminar, d`osso la vesta.    Granchi son detti: e quivi a la battaglia Lo scontraffatto stuol non prima è giunto Che si mette fra` sorci, abbranca, taglia, Rompe, straccia, calpesta. Ecco in un punto Sconfitto il vincitor; la rana il caccia, E quelli onde fuggia, fuga e minaccia.    A` granchi ogni arme si fiaccava in dorso: Fero un guasto, un macello innanzi sera, Mozzando or coda or zampa ad ogni morso. E già cadeva il Sol, quando la schiera De` topi si ritrasse afflitta e muta: E fu la guerra in un sol compiuta.
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