Dante Alighieri - Purgatorio (Italian)Dante Alighieri - Purgatorio (Italian)
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LA DIVINA COMMEDIA
di Dante Alighieri
PURGATORIO
Purgatorio: Canto I
Per correr miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar sì crudele;
e canterò di quel secondo regno
dove l`umano spirito si purga
e di salire al ciel diventa degno.
Ma qui la morta poesì resurga,
o sante Muse, poi che vostro sono;
e qui Caliopè alquanto surga,
seguitando il mio canto con quel suono
di cui le Piche misere sentiro
lo colpo tal, che disperar perdono.
Dolce color d`oriental zaffiro,
che s`accoglieva nel sereno aspetto
del mezzo, puro infino al primo giro,
a li occhi miei ricominciò diletto,
tosto ch`io usci` fuor de l`aura morta
che m`avea contristati li occhi e `l petto.
Lo bel pianeto che d`amar conforta
faceva tutto rider l`oriente,
velando i Pesci ch`erano in sua scorta.
I` mi volsi a man destra, e puosi mente
a l`altro polo, e vidi quattro stelle
non viste mai fuor ch`a la prima gente.
Goder pareva `l ciel di lor fiammelle:
oh settentrional vedovo sito,
poi che privato se` di mirar quelle!
Com`io da loro sguardo fui partito,
un poco me volgendo a l `altro polo,
là onde il Carro già era sparito,
vidi presso di me un veglio solo,
degno di tanta reverenza in vista,
che più non dee a padre alcun figliuolo.
Lunga la barba e di pel bianco mista
portava, a` suoi capelli simigliante,
de` quai cadeva al petto doppia lista.
Li raggi de le quattro luci sante
fregiavan sì la sua faccia di lume,
ch`i` `l vedea come `l sol fosse davante.
«Chi siete voi che contro al cieco fiume
fuggita avete la pregione etterna?»,
diss`el, movendo quelle oneste piume.
«Chi v`ha guidati, o che vi fu lucerna,
uscendo fuor de la profonda notte
che sempre nera fa la valle inferna?
Son le leggi d`abisso così rotte?
o è mutato in ciel novo consiglio,
che, dannati, venite a le mie grotte?».
Lo duca mio allor mi diè di piglio,
e con parole e con mani e con cenni
reverenti mi fé le gambe e `l ciglio.
Poscia rispuose lui: «Da me non venni:
donna scese del ciel, per li cui prieghi
de la mia compagnia costui sovvenni.
Ma da ch`è tuo voler che più si spieghi
di nostra condizion com`ell`è vera,
esser non puote il mio che a te si nieghi.
Questi non vide mai l`ultima sera;
ma per la sua follia le fu sì presso,
che molto poco tempo a volger era.
Sì com`io dissi, fui mandato ad esso
per lui campare; e non lì era altra via
che questa per la quale i` mi son messo.
Mostrata ho lui tutta la gente ria;
e ora intendo mostrar quelli spirti
che purgan sé sotto la tua balìa.
Com`io l`ho tratto, saria lungo a dirti;
de l`alto scende virtù che m`aiuta
conducerlo a vederti e a udirti.
Or ti piaccia gradir la sua venuta:
libertà va cercando, ch`è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.
Tu `l sai, ché non ti fu per lei amara
in Utica la morte, ove lasciasti
la vesta ch`al gran dì sarà sì chiara.
Non son li editti etterni per noi guasti,
ché questi vive, e Minòs me non lega;
ma son del cerchio ove son li occhi casti
di Marzia tua, che `n vista ancor ti priega,
o santo petto, che per tua la tegni:
per lo suo amore adunque a noi ti piega.
Lasciane andar per li tuoi sette regni;
grazie riporterò di te a lei,
se d`esser mentovato là giù degni».
«Marzia piacque tanto a li occhi miei
mentre ch`i` fu` di là», diss`elli allora,
«che quante grazie volse da me, fei.
Or che di là dal mal fiume dimora,
più muover non mi può, per quella legge
che fatta fu quando me n`usci` fora.
Ma se donna del ciel ti muove e regge,
come tu di` , non c`è mestier lusinghe:
bastisi ben che per lei mi richegge.
Va dunque, e fa che tu costui ricinghe
d`un giunco schietto e che li lavi `l viso,
sì ch`ogne sucidume quindi stinghe;
ché non si converria, l`occhio sorpriso
d`alcuna nebbia, andar dinanzi al primo
ministro, ch`è di quei di paradiso.
Questa isoletta intorno ad imo ad imo,
là giù colà dove la batte l`onda,
porta di giunchi sovra `l molle limo;
null`altra pianta che facesse fronda
o indurasse, vi puote aver vita,
però ch`a le percosse non seconda.
Poscia non sia di qua vostra reddita;
lo sol vi mosterrà, che surge omai,
prendere il monte a più lieve salita».
Così sparì; e io sù mi levai
sanza parlare, e tutto mi ritrassi
al duca mio, e li occhi a lui drizzai.
El cominciò: «Figliuol, segui i miei passi:
volgianci in dietro, ché di qua dichina
questa pianura a` suoi termini bassi».
L`alba vinceva l`ora mattutina
che fuggia innanzi, sì che di lontano
conobbi il tremolar de la marina.
Noi andavam per lo solingo piano
com`om che torna a la perduta strada,
che `nfino ad essa li pare ire in vano.
Quando noi fummo là `ve la rugiada
pugna col sole, per essere in parte
dove, ad orezza, poco si dirada,
ambo le mani in su l`erbetta sparte
soavemente `l mio maestro pose:
ond`io, che fui accorto di sua arte,
porsi ver` lui le guance lagrimose:
ivi mi fece tutto discoverto
quel color che l`inferno mi nascose.
Venimmo poi in sul lito diserto,
che mai non vide navicar sue acque
omo, che di tornar sia poscia esperto.
Quivi mi cinse sì com`altrui piacque:
oh maraviglia! ché qual elli scelse
l`umile pianta, cotal si rinacque
subitamente là onde l`avelse.
Purgatorio: Canto II
Già era `l sole a l`orizzonte giunto
lo cui meridian cerchio coverchia
Ierusalèm col suo più alto punto;
e la notte, che opposita a lui cerchia,
uscia di Gange fuor con le Bilance,
che le caggion di man quando soverchia;
sì che le bianche e le vermiglie guance,
là dov`i` era, de la bella Aurora
per troppa etate divenivan rance.
Noi eravam lunghesso mare ancora,
come gente che pensa a suo cammino,
che va col cuore e col corpo dimora.
Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino,
per li grossi vapor Marte rosseggia
giù nel ponente sovra `l suol marino,
cotal m`apparve, s`io ancor lo veggia,
un lume per lo mar venir sì ratto,
che `l muover suo nessun volar pareggia.
Dal qual com`io un poco ebbi ritratto
l`occhio per domandar lo duca mio,
rividil più lucente e maggior fatto.
Poi d`ogne lato ad esso m`appario
un non sapeva che bianco, e di sotto
a poco a poco un altro a lui uscio.
Lo mio maestro ancor non facea motto,
mentre che i primi bianchi apparver ali;
allor che ben conobbe il galeotto,
gridò: «Fa, fa che le ginocchia cali.
Ecco l`angel di Dio: piega le mani;
omai vedrai di sì fatti officiali.
Vedi che sdegna li argomenti umani,
sì che remo non vuol, né altro velo
che l`ali sue, tra liti sì lontani.
Vedi come l`ha dritte verso `l cielo,
trattando l`aere con l`etterne penne,
che non si mutan come mortal pelo».
Poi, come più e più verso noi venne
l`uccel divino, più chiaro appariva:
per che l`occhio da presso nol sostenne,
ma chinail giuso; e quei sen venne a riva
con un vasello snelletto e leggero,
tanto che l`acqua nulla ne `nghiottiva.
Da poppa stava il celestial nocchiero,
tal che faria beato pur descripto;
e più di cento spirti entro sediero.
`In exitu Israel de Aegypto`
cantavan tutti insieme ad una voce
con quanto di quel salmo è poscia scripto.
Poi fece il segno lor di santa croce;
ond`ei si gittar tutti in su la piaggia;
ed el sen gì, come venne, veloce.
La turba che rimase lì, selvaggia
parea del loco, rimirando intorno
come colui che nove cose assaggia.
Da tutte parti saettava il giorno
lo sol, ch`avea con le saette conte
di mezzo `l ciel cacciato Capricorno,
quando la nova gente alzò la fronte
ver` noi, dicendo a noi: «Se voi sapete,
mostratene la via di gire al monte».
E Virgilio rispuose: «Voi credete
forse che siamo esperti d`esto loco;
ma noi siam peregrin come voi siete.
Dianzi venimmo, innanzi a voi un poco,
per altra via, che fu sì aspra e forte,
che lo salire omai ne parrà gioco».
L`anime, che si fuor di me accorte,
per lo spirare, ch`i` era ancor vivo,
maravigliando diventaro smorte.
E come a messagger che porta ulivo
tragge la gente per udir novelle,
e di calcar nessun si mostra schivo,
così al viso mio s`affisar quelle
anime fortunate tutte quante,
quasi obliando d`ire a farsi belle.
Io vidi una di lor trarresi avante
per abbracciarmi con sì grande affetto,
che mosse me a far lo somigliante.
Ohi ombre vane, fuor che ne l`aspetto!
tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto.
Di maraviglia, credo, mi dipinsi;
per che l`ombra sorrise e si ritrasse,
e io, seguendo lei, oltre mi pinsi.
Soavemente disse ch`io posasse;
allor conobbi chi era, e pregai
che, per parlarmi, un poco s`arrestasse.
Rispuosemi: «Così com`io t`amai
nel mortal corpo, così t`amo sciolta:
però m`arresto; ma tu perché vai?».
«Casella mio, per tornar altra volta
là dov`io son, fo io questo viaggio»,
diss`io; «ma a te com`è tanta ora tolta?».
Ed elli a me: «Nessun m`è fatto oltraggio,
se quei che leva quando e cui li piace,
più volte m`ha negato esto passaggio;
ché di giusto voler lo suo si face:
veramente da tre mesi elli ha tolto
chi ha voluto intrar, con tutta pace.
Ond`io, ch`era ora a la marina vòlto
dove l`acqua di Tevero s`insala,
benignamente fu` da lui ricolto.
A quella foce ha elli or dritta l`ala,
però che sempre quivi si ricoglie
qual verso Acheronte non si cala».
E io: «Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l`amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
l`anima mia, che, con la sua persona
venendo qui, è affannata tanto!».
`Amor che ne la mente mi ragiona`
cominciò elli allor sì dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi suona.
Lo mio maestro e io e quella gente
ch`eran con lui parevan sì contenti,
come a nessun toccasse altro la mente.
Noi eravam tutti fissi e attenti
a le sue note; ed ecco il veglio onesto
gridando: «Che è ciò, spiriti lenti?
qual negligenza, quale stare è questo?
Correte al monte a spogliarvi lo scoglio
ch`esser non lascia a voi Dio manifesto».
Come quando, cogliendo biado o loglio,
li colombi adunati a la pastura,
queti, sanza mostrar l`usato orgoglio,
se cosa appare ond`elli abbian paura,
subitamente lasciano star l`esca,
perch`assaliti son da maggior cura;
così vid`io quella masnada fresca
lasciar lo canto, e fuggir ver` la costa,
com`om che va, né sa dove riesca:
né la nostra partita fu men tosta.
Purgatorio: Canto III
Avvegna che la subitana fuga
dispergesse color per la campagna,
rivolti al monte ove ragion ne fruga,
i` mi ristrinsi a la fida compagna:
e come sare` io sanza lui corso?
chi m`avria tratto su per la montagna?
El mi parea da sé stesso rimorso:
o dignitosa coscienza e netta,
come t`è picciol fallo amaro morso!
Quando li piedi suoi lasciar la fretta,
che l`onestade ad ogn`atto dismaga,
la mente mia, che prima era ristretta,
lo `ntento rallargò, sì come vaga,
e diedi `l viso mio incontr`al poggio
che `nverso `l ciel più alto si dislaga.
Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio,
rotto m`era dinanzi a la figura,
ch`avea in me de` suoi raggi l`appoggio.
Io mi volsi dallato con paura
d`essere abbandonato, quand`io vidi
solo dinanzi a me la terra oscura;
e `l mio conforto: «Perché pur diffidi?»,
a dir mi cominciò tutto rivolto;
«non credi tu me teco e ch`io ti guidi?
Vespero è già colà dov`è sepolto
lo corpo dentro al quale io facea ombra:
Napoli l`ha, e da Brandizio è tolto.
Ora, se innanzi a me nulla s`aombra,
non ti maravigliar più che d`i cieli
che l`uno a l`altro raggio non ingombra.
A sofferir tormenti, caldi e geli
simili corpi la Virtù dispone
che, come fa, non vuol ch`a noi si sveli.
Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.
State contenti, umana gente, al quia;
ché se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria;
e disiar vedeste sanza frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
ch`etternalmente è dato lor per lutto:
io dico d`Aristotile e di Plato
e di molt`altri»; e qui chinò la fronte,
e più non disse, e rimase turbato.
Noi divenimmo intanto a piè del monte;
quivi trovammo la roccia sì erta,
che `ndarno vi sarien le gambe pronte.
Tra Lerice e Turbìa la più diserta,
la più rotta ruina è una scala,
verso di quella, agevole e aperta.
«Or chi sa da qual man la costa cala»,
disse `l maestro mio fermando `l passo,
«sì che possa salir chi va sanz`ala?».
E mentre ch`e` tenendo `l viso basso
essaminava del cammin la mente,
e io mirava suso intorno al sasso,
da man sinistra m`apparì una gente
d`anime, che movieno i piè ver` noi,
e non pareva, sì venian lente.
«Leva», diss`io, «maestro, li occhi tuoi:
ecco di qua chi ne darà consiglio,
se tu da te medesmo aver nol puoi».
Guardò allora, e con libero piglio
rispuose: «Andiamo in là, ch`ei vegnon piano;
e tu ferma la spene, dolce figlio».
Ancora era quel popol di lontano,
i` dico dopo i nostri mille passi,
quanto un buon gittator trarria con mano,
quando si strinser tutti ai duri massi
de l`alta ripa, e stetter fermi e stretti
com`a guardar, chi va dubbiando, stassi.
«O ben finiti, o già spiriti eletti»,
Virgilio incominciò, «per quella pace
ch`i` credo che per voi tutti s`aspetti,
ditene dove la montagna giace
sì che possibil sia l`andare in suso;
ché perder tempo a chi più sa più spiace».
Come le pecorelle escon del chiuso
a una, a due, a tre, e l`altre stanno
timidette atterrando l`occhio e `l muso;
e ciò che fa la prima, e l`altre fanno,
addossandosi a lei, s`ella s`arresta,
semplici e quete, e lo `mperché non sanno;
sì vid`io muovere a venir la testa
di quella mandra fortunata allotta,
pudica in faccia e ne l`andare onesta.
Come color dinanzi vider rotta
la luce in terra dal mio destro canto,
sì che l`ombra era da me a la grotta,
restaro, e trasser sé in dietro alquanto,
e tutti li altri che venieno appresso,
non sappiendo `l perché, fenno altrettanto.
«Sanza vostra domanda io vi confesso
che questo è corpo uman che voi vedete;
per che `l lume del sole in terra è fesso.
Non vi maravigliate, ma credete
che non sanza virtù che da ciel vegna
cerchi di soverchiar questa parete».
Così `l maestro; e quella gente degna
«Tornate», disse, «intrate innanzi dunque»,
coi dossi de le man faccendo insegna.
E un di loro incominciò: «Chiunque
tu se`, così andando, volgi `l viso:
pon mente se di là mi vedesti unque».
Io mi volsi ver lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l`un de` cigli un colpo avea diviso.
Quand`io mi fui umilmente disdetto
d`averlo visto mai, el disse: «Or vedi»;
e mostrommi una piaga a sommo `l petto.
Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice;
ond`io ti priego che, quando tu riedi,
vadi a mia bella figlia, genitrice
de l`onor di Cicilia e d`Aragona,
e dichi `l vero a lei, s`altro si dice.
Poscia ch`io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.
Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.
Se `l pastor di Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,
l`ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.
Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo `l Verde,
dov`e` le trasmutò a lume spento.
Per lor maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, l`etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.
Vero è che quale in contumacia more
di Santa Chiesa, ancor ch`al fin si penta,
star li convien da questa ripa in fore,
per ognun tempo ch`elli è stato, trenta,
in sua presunzion, se tal decreto
più corto per buon prieghi non diventa.
Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m`hai visto, e anco esto divieto;
ché qui per quei di là molto s`avanza».
Purgatorio: Canto IV
Quando per dilettanze o ver per doglie,
che alcuna virtù nostra comprenda
l`anima bene ad essa si raccoglie,
par ch`a nulla potenza più intenda;
e questo è contra quello error che crede
ch`un`anima sovr`altra in noi s`accenda.
E però, quando s`ode cosa o vede
che tegna forte a sé l`anima volta,
vassene `l tempo e l`uom non se n`avvede;
ch`altra potenza è quella che l`ascolta,
e altra è quella c`ha l`anima intera:
questa è quasi legata, e quella è sciolta.
Di ciò ebb`io esperienza vera,
udendo quello spirto e ammirando;
ché ben cinquanta gradi salito era
lo sole, e io non m`era accorto, quando
venimmo ove quell`anime ad una
gridaro a noi: «Qui è vostro dimando».
Maggiore aperta molte volte impruna
con una forcatella di sue spine
l`uom de la villa quando l`uva imbruna,
che non era la calla onde saline
lo duca mio, e io appresso, soli,
come da noi la schiera si partìne.
Vassi in Sanleo e discendesi in Noli,
montasi su in Bismantova `n Cacume
con esso i piè; ma qui convien ch`om voli;
dico con l`ale snelle e con le piume
del gran disio, di retro a quel condotto
che speranza mi dava e facea lume.
Noi salavam per entro `l sasso rotto,
e d`ogne lato ne stringea lo stremo,
e piedi e man volea il suol di sotto.
Poi che noi fummo in su l`orlo suppremo
de l`alta ripa, a la scoperta piaggia,
«Maestro mio», diss`io, «che via faremo?».
Ed elli a me: «Nessun tuo passo caggia;
pur su al monte dietro a me acquista,
fin che n`appaia alcuna scorta saggia».
Lo sommo er`alto che vincea la vista,
e la costa superba più assai
che da mezzo quadrante a centro lista.
Io era lasso, quando cominciai:
«O dolce padre, volgiti, e rimira
com`io rimango sol, se non restai».
«Figliuol mio», disse, «infin quivi ti tira»,
additandomi un balzo poco in sùe
che da quel lato il poggio tutto gira.
Sì mi spronaron le parole sue,
ch`i` mi sforzai carpando appresso lui,
tanto che `l cinghio sotto i piè mi fue.
A seder ci ponemmo ivi ambedui
vòlti a levante ond`eravam saliti,
che suole a riguardar giovare altrui.
Li occhi prima drizzai ai bassi liti;
poscia li alzai al sole, e ammirava
che da sinistra n`eravam feriti.
Ben s`avvide il poeta ch`io stava
stupido tutto al carro de la luce,
ove tra noi e Aquilone intrava.
Ond`elli a me: «Se Castore e Poluce
fossero in compagnia di quello specchio
che sù e giù del suo lume conduce,
tu vedresti il Zodiaco rubecchio
ancora a l`Orse più stretto rotare,
se non uscisse fuor del cammin vecchio.
Come ciò sia, se `l vuoi poter pensare,
dentro raccolto, imagina Siòn
con questo monte in su la terra stare
sì, ch`amendue hanno un solo orizzòn
e diversi emisperi; onde la strada
che mal non seppe carreggiar Fetòn,
vedrai come a costui convien che vada
da l`un, quando a colui da l`altro fianco,
se lo `ntelletto tuo ben chiaro bada».
«Certo, maestro mio,», diss`io, «unquanco
non vid`io chiaro sì com`io discerno
là dove mio ingegno parea manco,
che `l mezzo cerchio del moto superno,
che si chiama Equatore in alcun`arte,
e che sempre riman tra `l sole e `l verno,
per la ragion che di` , quinci si parte
verso settentrion, quanto li Ebrei
vedevan lui verso la calda parte.
Ma se a te piace, volontier saprei
quanto avemo ad andar; ché `l poggio sale
più che salir non posson li occhi miei».
Ed elli a me: «Questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave;
e quant`om più va sù, e men fa male.
Però, quand`ella ti parrà soave
tanto, che sù andar ti fia leggero
com`a seconda giù andar per nave,
allor sarai al fin d`esto sentiero;
quivi di riposar l`affanno aspetta.
Più non rispondo, e questo so per vero».
E com`elli ebbe sua parola detta,
una voce di presso sonò: «Forse
che di sedere in pria avrai distretta!».
Al suon di lei ciascun di noi si torse,
e vedemmo a mancina un gran petrone,
del qual né io né ei prima s`accorse.
Là ci traemmo; e ivi eran persone
che si stavano a l`ombra dietro al sasso
come l`uom per negghienza a star si pone.
E un di lor, che mi sembiava lasso,
sedeva e abbracciava le ginocchia,
tenendo `l viso giù tra esse basso.
«O dolce segnor mio», diss`io, «adocchia
colui che mostra sé più negligente
che se pigrizia fosse sua serocchia».
Allor si volse a noi e puose mente,
movendo `l viso pur su per la coscia,
e disse: «Or va tu sù, che se` valente!».
Conobbi allor chi era, e quella angoscia
che m`avacciava un poco ancor la lena,
non m`impedì l`andare a lui; e poscia
ch`a lui fu` giunto, alzò la testa a pena,
dicendo: «Hai ben veduto come `l sole
da l`omero sinistro il carro mena?».
Li atti suoi pigri e le corte parole
mosser le labbra mie un poco a riso;
poi cominciai: «Belacqua, a me non dole
di te omai; ma dimmi: perché assiso
quiritto se`? attendi tu iscorta,
o pur lo modo usato t`ha` ripriso?».
Ed elli: «O frate, andar in sù che porta?
ché non mi lascerebbe ire a` martìri
l`angel di Dio che siede in su la porta.
Prima convien che tanto il ciel m`aggiri
di fuor da essa, quanto fece in vita,
perch`io `ndugiai al fine i buon sospiri,
se orazione in prima non m`aita
che surga sù di cuor che in grazia viva;
l`altra che val, che `n ciel non è udita?».
E già il poeta innanzi mi saliva,
e dicea: «Vienne omai; vedi ch`è tocco
meridian dal sole e a la riva
cuopre la notte già col piè Morrocco».
Purgatorio: Canto V
Io era già da quell`ombre partito,
e seguitava l`orme del mio duca,
quando di retro a me, drizzando `l dito,
una gridò: «Ve` che non par che luca
lo raggio da sinistra a quel di sotto,
e come vivo par che si conduca!».
Li occhi rivolsi al suon di questo motto,
e vidile guardar per maraviglia
pur me, pur me, e `l lume ch`era rotto.
«Perché l`animo tuo tanto s`impiglia»,
disse `l maestro, «che l`andare allenti?
che ti fa ciò che quivi si pispiglia?
Vien dietro a me, e lascia dir le genti:
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti;
ché sempre l`omo in cui pensier rampolla
sovra pensier, da sé dilunga il segno,
perché la foga l`un de l`altro insolla».
Che potea io ridir, se non «Io vegno»?
Dissilo, alquanto del color consperso
che fa l`uom di perdon talvolta degno.
E `ntanto per la costa di traverso
venivan genti innanzi a noi un poco,
cantando `Miserere` a verso a verso.
Quando s`accorser ch`i` non dava loco
per lo mio corpo al trapassar d`i raggi,
mutar lor canto in un «oh!» lungo e roco;
e due di loro, in forma di messaggi,
corsero incontr`a noi e dimandarne:
«Di vostra condizion fatene saggi».
E `l mio maestro: «Voi potete andarne
e ritrarre a color che vi mandaro
che `l corpo di costui è vera carne.
Se per veder la sua ombra restaro,
com`io avviso, assai è lor risposto:
fàccianli onore, ed essere può lor caro».
Vapori accesi non vid`io sì tosto
di prima notte mai fender sereno,
né, sol calando, nuvole d`agosto,
che color non tornasser suso in meno;
e, giunti là, con li altri a noi dier volta
come schiera che scorre sanza freno.
«Questa gente che preme a noi è molta,
e vegnonti a pregar», disse `l poeta:
«però pur va, e in andando ascolta».
«O anima che vai per esser lieta
con quelle membra con le quai nascesti»,
venian gridando, «un poco il passo queta.
Guarda s`alcun di noi unqua vedesti,
sì che di lui di là novella porti:
deh, perché vai? deh, perché non t`arresti?
Noi fummo tutti già per forza morti,
e peccatori infino a l`ultima ora;
quivi lume del ciel ne fece accorti,
sì che, pentendo e perdonando, fora
di vita uscimmo a Dio pacificati,
che del disio di sé veder n`accora».
E io: «Perché ne` vostri visi guati,
non riconosco alcun; ma s`a voi piace
cosa ch`io possa, spiriti ben nati,
voi dite, e io farò per quella pace
che, dietro a` piedi di sì fatta guida
di mondo in mondo cercar mi si face».
E uno incominciò: «Ciascun si fida
del beneficio tuo sanza giurarlo,
pur che `l voler nonpossa non ricida.
Ond`io, che solo innanzi a li altri parlo,
ti priego, se mai vedi quel paese
che siede tra Romagna e quel di Carlo,
che tu mi sie di tuoi prieghi cortese
in Fano, sì che ben per me s`adori
pur ch`i` possa purgar le gravi offese.
Quindi fu` io; ma li profondi fóri
ond`uscì `l sangue in sul quale io sedea,
fatti mi fuoro in grembo a li Antenori,
là dov`io più sicuro esser credea:
quel da Esti il fé far, che m`avea in ira
assai più là che dritto non volea.
Ma s`io fosse fuggito inver` la Mira,
quando fu` sovragiunto ad Oriaco,
ancor sarei di là dove si spira.
Corsi al palude, e le cannucce e `l braco
m`impigliar sì ch`i` caddi; e lì vid`io
de le mie vene farsi in terra laco».
Poi disse un altro: «Deh, se quel disio
si compia che ti tragge a l`alto monte,
con buona pietate aiuta il mio!
Io fui di Montefeltro, io son Bonconte;
Giovanna o altri non ha di me cura;
per ch`io vo tra costor con bassa fronte».
E io a lui: «Qual forza o qual ventura
ti traviò sì fuor di Campaldino,
che non si seppe mai tua sepultura?».
«Oh!», rispuos`elli, «a piè del Casentino
traversa un`acqua c`ha nome l`Archiano,
che sovra l`Ermo nasce in Apennino.
Là `ve `l vocabol suo diventa vano,
arriva` io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sanguinando il piano.
Quivi perdei la vista e la parola
nel nome di Maria fini`, e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola.
Io dirò vero e tu `l ridì tra ` vivi:
l`angel di Dio mi prese, e quel d`inferno
gridava: "O tu del ciel, perché mi privi?
Tu te ne porti di costui l`etterno
per una lagrimetta che `l mi toglie;
ma io farò de l`altro altro governo!".
Ben sai come ne l`aere si raccoglie
quell`umido vapor che in acqua riede,
tosto che sale dove `l freddo il coglie.
Giunse quel mal voler che pur mal chiede
con lo `ntelletto, e mosse il fummo e `l vento
per la virtù che sua natura diede.
Indi la valle, come `l dì fu spento,
da Pratomagno al gran giogo coperse
di nebbia; e `l ciel di sopra fece intento,
sì che `l pregno aere in acqua si converse;
la pioggia cadde e a` fossati venne
di lei ciò che la terra non sofferse;
e come ai rivi grandi si convenne,
ver` lo fiume real tanto veloce
si ruinò, che nulla la ritenne.
Lo corpo mio gelato in su la foce
trovò l`Archian rubesto; e quel sospinse
ne l`Arno, e sciolse al mio petto la croce
ch`i` fe` di me quando `l dolor mi vinse;
voltòmmi per le ripe e per lo fondo,
poi di sua preda mi coperse e cinse».
«Deh, quando tu sarai tornato al mondo,
e riposato de la lunga via»,
seguitò `l terzo spirito al secondo,
«ricorditi di me, che son la Pia:
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che `nnanellata pria
disposando m`avea con la sua gemma».
Purgatorio: Canto VI
Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara;
con l`altro se ne va tutta la gente;
qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
e qual dallato li si reca a mente;
el non s`arresta, e questo e quello intende;
a cui porge la man, più non fa pressa;
e così da la calca si difende.
Tal era io in quella turba spessa,
volgendo a loro, e qua e là, la faccia,
e promettendo mi sciogliea da essa.
Quiv`era l`Aretin che da le braccia
fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte,
e l`altro ch`annegò correndo in caccia.
Quivi pregava con le mani sporte
Federigo Novello, e quel da Pisa
che fé parer lo buon Marzucco forte.
Vidi conte Orso e l`anima divisa
dal corpo suo per astio e per inveggia,
com`e` dicea, non per colpa commisa;
Pier da la Broccia dico; e qui proveggia,
mentr`è di qua, la donna di Brabante,
sì che però non sia di peggior greggia.
Come libero fui da tutte quante
quell`ombre che pregar pur ch`altri prieghi,
sì che s`avacci lor divenir sante,
io cominciai: «El par che tu mi nieghi,
o luce mia, espresso in alcun testo
che decreto del cielo orazion pieghi;
e questa gente prega pur di questo:
sarebbe dunque loro speme vana,
o non m`è `l detto tuo ben manifesto?».
Ed elli a me: «La mia scrittura è piana;
e la speranza di costor non falla,
se ben si guarda con la mente sana;
ché cima di giudicio non s`avvalla
perché foco d`amor compia in un punto
ciò che de` sodisfar chi qui s`astalla;
e là dov`io fermai cotesto punto,
non s`ammendava, per pregar, difetto,
perché `l priego da Dio era disgiunto.
Veramente a così alto sospetto
non ti fermar, se quella nol ti dice
che lume fia tra `l vero e lo `ntelletto.
Non so se `ntendi: io dico di Beatrice;
tu la vedrai di sopra, in su la vetta
di questo monte, ridere e felice».
E io: «Segnore, andiamo a maggior fretta,
ché già non m`affatico come dianzi,
e vedi omai che `l poggio l`ombra getta».
«Noi anderem con questo giorno innanzi»,
rispuose, «quanto più potremo omai;
ma `l fatto è d`altra forma che non stanzi.
Prima che sie là sù, tornar vedrai
colui che già si cuopre de la costa,
sì che ` suoi raggi tu romper non fai.
Ma vedi là un`anima che, posta
sola soletta, inverso noi riguarda:
quella ne `nsegnerà la via più tosta».
Venimmo a lei: o anima lombarda,
come ti stavi altera e disdegnosa
e nel mover de li occhi onesta e tarda!
Ella non ci dicea alcuna cosa,
ma lasciavane gir, solo sguardando
a guisa di leon quando si posa.
Pur Virgilio si trasse a lei, pregando
che ne mostrasse la miglior salita;
e quella non rispuose al suo dimando,
ma di nostro paese e de la vita
ci `nchiese; e `l dolce duca incominciava
«Mantua…», e l`ombra, tutta in sé romita,
surse ver` lui del loco ove pria stava,
dicendo: «O Mantoano, io son Sordello
de la tua terra!»; e l`un l`altro abbracciava.
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!
Quell`anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;
e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l`un l`altro si rode
di quei ch`un muro e una fossa serra.
Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s`alcuna parte in te di pace gode.
Che val perché ti racconciasse il freno
Iustiniano, se la sella è vota?
Sanz`esso fora la vergogna meno.
Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,
guarda come esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.
O Alberto tedesco ch`abbandoni
costei ch`è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio da le stelle caggia
sovra `l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che `l tuo successor temenza n`aggia!
Ch`avete tu e `l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che `l giardin de lo `mperio sia diserto.
Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti!
Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura
d`i tuoi gentili, e cura lor magagne;
e vedrai Santafior com`è oscura!
Vieni a veder la tua Roma che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
«Cesare mio, perché non m`accompagne?».
Vieni a veder la gente quanto s`ama!
e se nulla di noi pietà ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama.
E se licito m`è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
O è preparazion che ne l`abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l`accorger nostro scisso?
Ché le città d`Italia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene.
Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
di questa digression che non ti tocca,
mercé del popol tuo che si argomenta.
Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l`arco;
ma il popol tuo l`ha in sommo de la bocca.
Molti rifiutan lo comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida: «I` mi sobbarco!».
Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace, e tu con senno!
S`io dico `l ver, l`effetto nol nasconde.
Atene e Lacedemona, che fenno
l`antiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cenno
verso di te, che fai tanto sottili
provedimenti, ch`a mezzo novembre
non giugne quel che tu d`ottobre fili.
Quante volte, del tempo che rimembre,
legge, moneta, officio e costume
hai tu mutato e rinovate membre!
E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,
ma con dar volta suo dolore scherma.
Purgatorio: Canto VII
Poscia che l`accoglienze oneste e liete
furo iterate tre e quattro volte,
Sordel si trasse, e disse: «Voi, chi siete?».
«Anzi che a questo monte fosser volte
l`anime degne di salire a Dio,
fur l`ossa mie per Ottavian sepolte.
Io son Virgilio; e per null`altro rio
lo ciel perdei che per non aver fé».
Così rispuose allora il duca mio.
Qual è colui che cosa innanzi sé
sùbita vede ond`e` si maraviglia,
che crede e non, dicendo «Ella è… non è…»,
tal parve quelli; e poi chinò le ciglia,
e umilmente ritornò ver` lui,
e abbracciòl là `ve `l minor s`appiglia.
«O gloria di Latin», disse, «per cui
mostrò ciò che potea la lingua nostra,
o pregio etterno del loco ond`io fui,
qual merito o qual grazia mi ti mostra?
S`io son d`udir le tue parole degno,
dimmi se vien d`inferno, e di qual chiostra».
«Per tutt`i cerchi del dolente regno»,
rispuose lui, «son io di qua venuto;
virtù del ciel mi mosse, e con lei vegno.
Non per far, ma per non fare ho perduto
a veder l`alto Sol che tu disiri
e che fu tardi per me conosciuto.
Luogo è là giù non tristo di martìri,
ma di tenebre solo, ove i lamenti
non suonan come guai, ma son sospiri.
Quivi sto io coi pargoli innocenti
dai denti morsi de la morte avante
che fosser da l`umana colpa essenti;
quivi sto io con quei che le tre sante
virtù non si vestiro, e sanza vizio
conobber l`altre e seguir tutte quante.
Ma se tu sai e puoi, alcuno indizio
dà noi per che venir possiam più tosto
là dove purgatorio ha dritto inizio».
Rispuose: «Loco certo non c`è posto;
licito m`è andar suso e intorno;
per quanto ir posso, a guida mi t`accosto.
Ma vedi già come dichina il giorno,
e andar sù di notte non si puote;
però è buon pensar di bel soggiorno.
Anime sono a destra qua remote:
se mi consenti, io ti merrò ad esse,
e non sanza diletto ti fier note».
«Com`è ciò?», fu risposto. «Chi volesse
salir di notte, fora elli impedito
d`altrui, o non sarria ché non potesse?».
E `l buon Sordello in terra fregò `l dito,
dicendo: «Vedi? sola questa riga
non varcheresti dopo `l sol partito:
non però ch`altra cosa desse briga,
che la notturna tenebra, ad ir suso;
quella col nonpoder la voglia intriga.
Ben si poria con lei tornare in giuso
e passeggiar la costa intorno errando,
mentre che l`orizzonte il dì tien chiuso».
Allora il mio segnor, quasi ammirando,
«Menane», disse, «dunque là `ve dici
ch`aver si può diletto dimorando».
Poco allungati c`eravam di lici,
quand`io m`accorsi che `l monte era scemo,
a guisa che i vallon li sceman quici.
«Colà», disse quell`ombra, «n`anderemo
dove la costa face di sé grembo;
e là il novo giorno attenderemo».
Tra erto e piano era un sentiero schembo,
che ne condusse in fianco de la lacca,
là dove più ch`a mezzo muore il lembo.
Oro e argento fine, cocco e biacca,
indaco, legno lucido e sereno,
fresco smeraldo in l`ora che si fiacca,
da l`erba e da li fior, dentr`a quel seno
posti, ciascun saria di color vinto,
come dal suo maggiore è vinto il meno.
Non avea pur natura ivi dipinto,
ma di soavità di mille odori
vi facea uno incognito e indistinto.
`Salve, Regina` in sul verde e `n su` fiori
quindi seder cantando anime vidi,
che per la valle non parean di fuori.
«Prima che `l poco sole omai s`annidi»,
cominciò `l Mantoan che ci avea vòlti,
«tra color non vogliate ch`io vi guidi.
Di questo balzo meglio li atti e ` volti
conoscerete voi di tutti quanti,
che ne la lama giù tra essi accolti.
Colui che più siede alto e fa sembianti
d`aver negletto ciò che far dovea,
e che non move bocca a li altrui canti,
Rodolfo imperador fu, che potea
sanar le piaghe c`hanno Italia morta,
sì che tardi per altri si ricrea.
L`altro che ne la vista lui conforta,
resse la terra dove l`acqua nasce
che Molta in Albia, e Albia in mar ne porta:
Ottacchero ebbe nome, e ne le fasce
fu meglio assai che Vincislao suo figlio
barbuto, cui lussuria e ozio pasce.
E quel nasetto che stretto a consiglio
par con colui c`ha sì benigno aspetto,
morì fuggendo e disfiorando il giglio:
guardate là come si batte il petto!
L`altro vedete c`ha fatto a la guancia
de la sua palma, sospirando, letto.
Padre e suocero son del mal di Francia:
sanno la vita sua viziata e lorda,
e quindi viene il duol che sì li lancia.
Quel che par sì membruto e che s`accorda,
cantando, con colui dal maschio naso,
d`ogne valor portò cinta la corda;
e se re dopo lui fosse rimaso
lo giovanetto che retro a lui siede,
ben andava il valor di vaso in vaso,
che non si puote dir de l`altre rede;
Iacomo e Federigo hanno i reami;
del retaggio miglior nessun possiede.
Rade volte risurge per li rami
l`umana probitate; e questo vole
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