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Dante Alighieri - Inferno (Italian)Dante Alighieri - Inferno (Italian)
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Tanai sotto `l freddo cielo,  com`era quivi; che se Tambernicchi vi fosse caduto, o Pietrapana, non avria pur da l`orlo fatto cricchi.  E come a gracidar si sta la rana col muso fuor de l`acqua, quando sogna di spigolar sovente la villana;  livide, insin dove appar vergogna eran l`ombre dolenti ne la ghiaccia, mettendo i denti in nota di cicogna.  Ognuna in giù tenea volta la faccia; da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo tra lor testimonianza si procaccia.  Quand`io m`ebbi dintorno alquanto visto, volsimi a` piedi, e vidi due stretti, che `l pel del capo avieno insieme misto.  «Ditemi, voi che strignete i petti», diss`io, «chi siete?». E quei piegaro i colli; e poi ch`ebber li visi a me eretti,  li occhi lor, ch`eran pria pur dentro molli, gocciar su per le labbra, e `l gelo strinse le lagrime tra essi e riserrolli.  Con legno legno spranga mai non cinse forte così; ond`ei come due becchi cozzaro insieme, tanta ira li vinse.  E un ch`avea perduti ambo li orecchi per la freddura, pur col viso in giùe, disse: «Perché cotanto in noi ti specchi?  Se vuoi saper chi son cotesti due, la valle onde Bisenzo si dichina del padre loro Alberto e di lor fue.  D`un corpo usciro; e tutta la Caina potrai cercare, e non troverai ombra degna più d`esser fitta in gelatina;  non quelli a cui fu rotto il petto e l`ombra con esso un colpo per la man d`Artù; non Focaccia; non questi che m`ingombra  col capo sì, ch`i` non veggio oltre più, e fu nomato Sassol Mascheroni; se tosco se`, ben sai omai chi fu.  E perché non mi metti in più sermoni, sappi ch`i` fu` il Camiscion de` Pazzi; e aspetto Carlin che mi scagioni».  Poscia vid`io mille visi cagnazzi fatti per freddo; onde mi vien riprezzo, e verrà sempre, de` gelati guazzi.  E mentre ch`andavamo inver` lo mezzo al quale ogne gravezza si rauna, e io tremava ne l`etterno rezzo;  se voler fu o destino o fortuna, non so; ma, passeggiando tra le teste, forte percossi `l piè nel viso ad una.  Piangendo mi sgridò: «Perché mi peste? se tu non vieni a crescer la vendetta di Montaperti, perché mi moleste?».  E io: «Maestro mio, or qui m`aspetta, si ch`io esca d`un dubbio per costui; poi mi farai, quantunque vorrai, fretta».  Lo duca stette, e io dissi a colui che bestemmiava duramente ancora: «Qual se` tu che così rampogni altrui?».  «Or tu chi se` che vai per l`Antenora, percotendo», rispuose, «altrui le gote, che, se fossi vivo, troppo fora?».  «Vivo son io, e caro esser ti puote», fu mia risposta, «se dimandi fama, ch`io metta il nome tuo tra l`altre note».  Ed elli a me: «Del contrario ho io brama. Lèvati quinci e non mi dar più lagna, ché mal sai lusingar per questa lama!».  Allor lo presi per la cuticagna, e dissi: «El converrà che tu ti nomi, o che capel qui non ti rimagna».  Ond`elli a me: «Perché tu mi dischiomi, ti dirò ch`io sia, mosterrolti, se mille fiate in sul capo mi tomi».  Io avea già i capelli in mano avvolti, e tratto glien`avea più d`una ciocca, latrando lui con li occhi in giù raccolti,  quando un altro gridò: «Che hai tu, Bocca? non ti basta sonar con le mascelle, se tu non latri? qual diavol ti tocca?».  «Omai», diss`io, «non vo` che più favelle, malvagio traditor; ch`a la tua onta io porterò di te vere novelle».  «Va via», rispuose, «e ciò che tu vuoi conta; ma non tacer, se tu di qua entro eschi, di quel ch`ebbe or così la lingua pronta.  El piange qui l`argento de` Franceschi: "Io vidi", potrai dir, "quel da Duera dove i peccatori stanno freschi".  Se fossi domandato "Altri chi v`era?", tu hai dallato quel di Beccheria di cui segò Fiorenza la gorgiera.  Gianni de` Soldanier credo che sia più con Ganellone e Tebaldello, ch`aprì Faenza quando si dormia».  Noi eravam partiti già da ello, ch`io vidi due ghiacciati in una buca, che l`un capo a l`altro era cappello;  e come `l pan per fame si manduca, così `l sovran li denti a l`altro pose `ve `l cervel s`aggiugne con la nuca:  non altrimenti Tideo si rose le tempie a Menalippo per disdegno, che quei faceva il teschio e l`altre cose.  «O tu che mostri per bestial segno odio sovra colui che tu ti mangi, dimmi `l perché», diss`io, «per tal convegno,  che se tu a ragion di lui ti piangi, sappiendo chi voi siete e la sua pecca, nel mondo suso ancora io te ne cangi,  se quella con ch`io parlo non si secca». Inferno: Canto XXXIII  La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator, forbendola a`capelli del capo ch`elli avea di retro guasto.  Poi cominciò: «Tu vuo` ch`io rinovelli disperato dolor che `l cor mi preme già pur pensando, pria ch`io ne favelli.  Ma se le mie parole esser dien seme che frutti infamia al traditor ch`i` rodo, parlar e lagrimar vedrai insieme.  Io non so chi tu se` per che modo venuto se` qua giù; ma fiorentino mi sembri veramente quand`io t`odo.  Tu dei saper ch`i` fui conte Ugolino, e questi è l`arcivescovo Ruggieri: or ti dirò perché i son tal vicino.  Che per l`effetto de` suo` mai pensieri, fidandomi di lui, io fossi preso e poscia morto, dir non è mestieri;  però quel che non puoi avere inteso, cioè come la morte mia fu cruda, udirai, e saprai s`e` m`ha offeso.  Breve pertugio dentro da la Muda la qual per me ha `l titol de la fame, e che conviene ancor ch`altrui si chiuda,  m`avea mostrato per lo suo forame più lune già, quand`io feci `l mal sonno che del futuro mi squarciò `l velame.  Questi pareva a me maestro e donno, cacciando il lupo e ` lupicini al monte per che i Pisan veder Lucca non ponno.  Con cagne magre, studiose e conte Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi s`avea messi dinanzi da la fronte.  In picciol corso mi parieno stanchi lo padre e ` figli, e con l`agute scane mi parea lor veder fender li fianchi.  Quando fui desto innanzi la dimane, pianger senti` fra `l sonno i miei figliuoli ch`eran con meco, e dimandar del pane.  Ben se` crudel, se tu già non ti duoli pensando ciò che `l mio cor s`annunziava; e se non piangi, di che pianger suoli?  Già eran desti, e l`ora s`appressava che `l cibo ne solea essere addotto, e per suo sogno ciascun dubitava;  e io senti` chiavar l`uscio di sotto a l`orribile torre; ond`io guardai nel viso a` mie` figliuoi sanza far motto.  Io non piangea, dentro impetrai: piangevan elli; e Anselmuccio mio disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?".  Perciò non lacrimai rispuos`io tutto quel giorno la notte appresso, infin che l`altro sol nel mondo uscìo.  Come un poco di raggio si fu messo nel doloroso carcere, e io scorsi per quattro visi il mio aspetto stesso,  ambo le man per lo dolor mi morsi; ed ei, pensando ch`io `l fessi per voglia di manicar, di subito levorsi  e disser: "Padre, assai ci fia men doglia se tu mangi di noi: tu ne vestisti queste misere carni, e tu le spoglia".  Queta`mi allor per non farli più tristi; lo e l`altro stemmo tutti muti; ahi dura terra, perché non t`apristi?  Poscia che fummo al quarto venuti, Gaddo mi si gittò disteso a` piedi, dicendo: "Padre mio, ché non mi aiuti?".  Quivi morì; e come tu mi vedi, vid`io cascar li tre ad uno ad uno tra `l quinto e `l sesto; ond`io mi diedi,  già cieco, a brancolar sovra ciascuno, e due li chiamai, poi che fur morti. Poscia, più che `l dolor, poté `l digiuno».  Quand`ebbe detto ciò, con li occhi torti riprese `l teschio misero co`denti, che furo a l`osso, come d`un can, forti.  Ahi Pisa, vituperio de le genti del bel paese dove `l suona, poi che i vicini a te punir son lenti,  muovasi la Capraia e la Gorgona, e faccian siepe ad Arno in su la foce, ch`elli annieghi in te ogne persona!  Ché se `l conte Ugolino aveva voce d`aver tradita te de le castella, non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.  Innocenti facea l`età novella, novella Tebe, Uguiccione e `l Brigata e li altri due che `l canto suso appella.  Noi passammo oltre, `ve la gelata ruvidamente un`altra gente fascia, non volta in giù, ma tutta riversata.  Lo pianto stesso pianger non lascia, e `l duol che truova in su li occhi rintoppo, si volge in entro a far crescer l`ambascia;  ché le lagrime prime fanno groppo, e come visiere di cristallo, riempion sotto `l ciglio tutto il coppo.  E avvegna che, come d`un callo, per la freddura ciascun sentimento cessato avesse del mio viso stallo,  già mi parea sentire alquanto vento: per ch`io: «Maestro mio, questo chi move? non è qua giù ogne vapore spento?».  Ond`elli a me: «Avaccio sarai dove di ciò ti farà l`occhio la risposta, veggendo la cagion che `l fiato piove».  E un de` tristi de la fredda crosta gridò a noi: «O anime crudeli, tanto che data v`è l`ultima posta,  levatemi dal viso i duri veli, ch`io sfoghi `l duol che `l cor m`impregna, un poco, pria che `l pianto si raggeli».  Per ch`io a lui: «Se vuo` ch`i` ti sovvegna, dimmi chi se`, e s`io non ti disbrigo, al fondo de la ghiaccia ir mi convegna».  Rispuose adunque: «I` son frate Alberigo; i` son quel da le frutta del mal orto, che qui riprendo dattero per figo».  «Oh!», diss`io lui, «or se` tu ancor morto?». Ed elli a me: «Come `l mio corpo stea nel mondo sù, nulla scienza porto.  Cotal vantaggio ha questa Tolomea, che spesse volte l`anima ci cade innanzi ch`Atropòs mossa le dea.  E perché tu più volentier mi rade le `nvetriate lagrime dal volto, sappie che, tosto che l`anima trade  come fec`io, il corpo suo l`è tolto da un demonio, che poscia il governa mentre che `l tempo suo tutto sia vòlto.  Ella ruina in fatta cisterna; e forse pare ancor lo corpo suso de l`ombra che di qua dietro mi verna.  Tu `l dei saper, se tu vien pur mo giuso: elli è ser Branca Doria, e son più anni poscia passati ch`el fu racchiuso».  «Io credo», diss`io lui, «che tu m`inganni; ché Branca Doria non morì unquanche, e mangia e bee e dorme e veste panni».  «Nel fosso sù», diss`el, «de` Malebranche, dove bolle la tenace pece, non era ancor giunto Michel Zanche,  che questi lasciò il diavolo in sua vece nel corpo suo, ed un suo prossimano che `l tradimento insieme con lui fece.  Ma distendi oggimai in qua la mano; aprimi li occhi». E io non gliel`apersi; e cortesia fu lui esser villano.  Ahi Genovesi, uomini diversi d`ogne costume e pien d`ogne magagna, perché non siete voi del mondo spersi?  Ché col peggiore spirto di Romagna trovai di voi un tal, che per sua opra in anima in Cocito già si bagna,  e in corpo par vivo ancor di sopra. Inferno: Canto XXXIV  «Vexilla regis prodeunt inferni verso di noi; però dinanzi mira», disse `l maestro mio «se tu `l discerni».  Come quando una grossa nebbia spira, o quando l`emisperio nostro annotta, par di lungi un molin che `l vento gira,  veder mi parve un tal dificio allotta; poi per lo vento mi ristrinsi retro al duca mio; ché non era altra grotta.  Già era, e con paura il metto in metro, dove l`ombre tutte eran coperte, e trasparien come festuca in vetro.  Altre sono a giacere; altre stanno erte, quella col capo e quella con le piante; altra, com`arco, il volto a` piè rinverte.  Quando noi fummo fatti tanto avante, ch`al mio maestro piacque di mostrarmi la creatura ch`ebbe il bel sembiante,  d`innanzi mi si tolse e restarmi, «Ecco Dite», dicendo, «ed ecco il loco ove convien che di fortezza t`armi».  Com`io divenni allor gelato e fioco, nol dimandar, lettor, ch`i` non lo scrivo, però ch`ogne parlar sarebbe poco.  Io non mori` e non rimasi vivo: pensa oggimai per te, s`hai fior d`ingegno, qual io divenni, d`uno e d`altro privo.  Lo `mperador del doloroso regno da mezzo `l petto uscìa fuor de la ghiaccia; e più con un gigante io mi convegno,  che i giganti non fan con le sue braccia: vedi oggimai quant`esser dee quel tutto ch`a così fatta parte si confaccia.  S`el fu bel com`elli è ora brutto, e contra `l suo fattore alzò le ciglia, ben dee da lui proceder ogne lutto.  Oh quanto parve a me gran maraviglia quand`io vidi tre facce a la sua testa! L`una dinanzi, e quella era vermiglia;  l`altr`eran due, che s`aggiugnieno a questa sovresso `l mezzo di ciascuna spalla, e giugnieno al loco de la cresta:  e la destra parea tra bianca e gialla; la sinistra a vedere era tal, quali vegnon di onde `l Nilo s`avvalla.  Sotto ciascuna uscivan due grand`ali, quanto si convenia a tanto uccello: vele di mar non vid`io mai cotali.  Non avean penne, ma di vispistrello era lor modo; e quelle svolazzava, che tre venti si movean da ello:  quindi Cocito tutto s`aggelava. Con sei occhi piangea, e per tre menti gocciava `l pianto e sanguinosa bava.  Da ogne bocca dirompea co` denti un peccatore, a guisa di maciulla, che tre ne facea così dolenti.  A quel dinanzi il mordere era nulla verso `l graffiar, che talvolta la schiena rimanea de la pelle tutta brulla.  «Quell`anima c`ha maggior pena», disse `l maestro, «è Giuda Scariotto, che `l capo ha dentro e fuor le gambe mena.  De li altri due c`hanno il capo di sotto, quel che pende dal nero ceffo è Bruto: vedi come si storce, e non fa motto!;  e l`altro è Cassio che par membruto. Ma la notte risurge, e oramai è da partir, ché tutto avem veduto».  Com`a lui piacque, il collo li avvinghiai; ed el prese di tempo e loco poste, e quando l`ali fuoro aperte assai,  appigliò a le vellute coste; di vello in vello giù discese poscia tra `l folto pelo e le gelate croste.  Quando noi fummo dove la coscia si volge, a punto in sul grosso de l`anche, lo duca, con fatica e con angoscia,  volse la testa ov`elli avea le zanche, e aggrappossi al pel com`om che sale, che `n inferno i` credea tornar anche.  «Attienti ben, ché per cotali scale», disse `l maestro, ansando com`uom lasso, «conviensi dipartir da tanto male».  Poi uscì fuor per lo fóro d`un sasso, e puose me in su l`orlo a sedere; appresso porse a me l`accorto passo.  Io levai li occhi e credetti vedere Lucifero com`io l`avea lasciato, e vidili le gambe in tenere;  e s`io divenni allora travagliato, la gente grossa il pensi, che non vede qual è quel punto ch`io avea passato.  «Lèvati sù», disse `l maestro, «in piede: la via è lunga e `l cammino è malvagio, e già il sole a mezza terza riede».  Non era camminata di palagio `v`eravam, ma natural burella ch`avea mal suolo e di lume disagio.  «Prima ch`io de l`abisso mi divella, maestro mio», diss`io quando fui dritto, «a trarmi d`erro un poco mi favella:  ov`è la ghiaccia? e questi com`è fitto sottosopra? e come, in poc`ora, da sera a mane ha fatto il sol tragitto?».  Ed elli a me: «Tu imagini ancora d`esser di dal centro, ov`io mi presi al pel del vermo reo che `l mondo fóra.  Di fosti cotanto quant`io scesi; quand`io mi volsi, tu passasti `l punto al qual si traggon d`ogne parte i pesi.  E se` or sotto l`emisperio giunto ch`è contraposto a quel che la gran secca coverchia, e sotto `l cui colmo consunto  fu l`uom che nacque e visse sanza pecca: tu hai i piedi in su picciola spera che l`altra faccia fa de la Giudecca.  Qui è da man, quando di è sera; e questi, che ne scala col pelo, fitto è ancora come prim`era.  Da questa parte cadde giù dal cielo; e la terra, che pria di qua si sporse, per paura di lui del mar velo,  e venne a l`emisperio nostro; e forse per fuggir lui lasciò qui loco vòto quella ch`appar di qua, e ricorse».  Luogo è giù da Belzebù remoto tanto quanto la tomba si distende, che non per vista, ma per suono è noto  d`un ruscelletto che quivi discende per la buca d`un sasso, ch`elli ha roso, col corso ch`elli avvolge, e poco pende.  Lo duca e io per quel cammino ascoso intrammo a ritornar nel chiaro mondo; e sanza cura aver d`alcun riposo,  salimmo sù, el primo e io secondo, tanto ch`i` vidi de le cose belle che porta `l ciel, per un pertugio tondo.  E quindi uscimmo a riveder le stelle.
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