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Dante Alighieri - Inferno (Italian)Dante Alighieri - Inferno (Italian)
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le cosce con le gambe e `l ventre e `l casso divenner membra che non fuor mai viste.  Ogne primaio aspetto ivi era casso: due e nessun l`imagine perversa parea; e tal sen gio con lento passo.  Come `l ramarro sotto la gran fersa dei canicular, cangiando sepe, folgore par se la via attraversa,  sì pareva, venendo verso l`epe de li altri due, un serpentello acceso, livido e nero come gran di pepe;  e quella parte onde prima è preso nostro alimento, a l`un di lor trafisse; poi cadde giuso innanzi lui disteso.  Lo trafitto `l mirò, ma nulla disse; anzi, co` piè fermati, sbadigliava pur come sonno o febbre l`assalisse.  Elli `l serpente, e quei lui riguardava; l`un per la piaga, e l`altro per la bocca fummavan forte, e `l fummo si scontrava.  Taccia Lucano ormai dove tocca del misero Sabello e di Nasidio, e attenda a udir quel ch`or si scocca.  Taccia di Cadmo e d`Aretusa Ovidio; ché se quello in serpente e quella in fonte converte poetando, io non lo `nvidio;  ché due nature mai a fronte a fronte non trasmutò ch`amendue le forme a cambiar lor matera fosser pronte.  Insieme si rispuosero a tai norme, che `l serpente la coda in forca fesse, e il feruto ristrinse insieme l`orme.  Le gambe con le cosce seco stesse s`appiccar sì, che `n poco la giuntura non facea segno alcun che si paresse.  Togliea la coda fessa la figura che si perdeva là, e la sua pelle si facea molle, e quella di dura.  Io vidi intrar le braccia per l`ascelle, e i due piè de la fiera, ch`eran corti, tanto allungar quanto accorciavan quelle.  Poscia li piè di retro, insieme attorti, diventaron lo membro che l`uom cela, e `l misero del suo n`avea due porti.  Mentre che `l fummo l`uno e l`altro vela di color novo, e genera `l pel suso per l`una parte e da l`altra il dipela,  l`un si levò e l`altro cadde giuso, non torcendo però le lucerne empie, sotto le quai ciascun cambiava muso.  Quel ch`era dritto, il trasse ver` le tempie, e di troppa matera ch`in venne uscir li orecchi de le gote scempie;  ciò che non corse in dietro e si ritenne di quel soverchio, naso a la faccia e le labbra ingrossò quanto convenne.  Quel che giacea, il muso innanzi caccia, e li orecchi ritira per la testa come face le corna la lumaccia;  e la lingua, ch`avea unita e presta prima a parlar, si fende, e la forcuta ne l`altro si richiude; e `l fummo resta.  L`anima ch`era fiera divenuta, suffolando si fugge per la valle, e l`altro dietro a lui parlando sputa.  Poscia li volse le novelle spalle, e disse a l`altro: «I` vo` che Buoso corra, com`ho fatt`io, carpon per questo calle».  Così vid`io la settima zavorra mutare e trasmutare; e qui mi scusi la novità se fior la penna abborra.  E avvegna che li occhi miei confusi fossero alquanto e l`animo smagato, non poter quei fuggirsi tanto chiusi,  ch`i` non scorgessi ben Puccio Sciancato; ed era quel che sol, di tre compagni che venner prima, non era mutato;  l`altr`era quel che tu, Gaville, piagni. Inferno: Canto XXVI  Godi, Fiorenza, poi che se` grande, che per mare e per terra batti l`ali, e per lo `nferno tuo nome si spande!  Tra li ladron trovai cinque cotali tuoi cittadini onde mi ven vergogna, e tu in grande orranza non ne sali.  Ma se presso al mattin del ver si sogna, tu sentirai di qua da picciol tempo di quel che Prato, non ch`altri, t`agogna.  E se già fosse, non saria per tempo. Così foss`ei, da che pur esser dee! ché più mi graverà, com`più m`attempo.  Noi ci partimmo, e su per le scalee che n`avea fatto iborni a scender pria, rimontò `l duca mio e trasse mee;  e proseguendo la solinga via, tra le schegge e tra ` rocchi de lo scoglio lo piè sanza la man non si spedia.  Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio quando drizzo la mente a ciò ch`io vidi, e più lo `ngegno affreno ch`i` non soglio,  perché non corra che virtù nol guidi; che, se stella bona o miglior cosa m`ha dato `l ben, ch`io stessi nol m`invidi.  Quante `l villan ch`al poggio si riposa, nel tempo che colui che `l mondo schiara la faccia sua a noi tien meno ascosa,  come la mosca cede alla zanzara, vede lucciole giù per la vallea, forse colà dov`e` vendemmia e ara:  di tante fiamme tutta risplendea l`ottava bolgia, com`io m`accorsi tosto che fui `ve `l fondo parea.  E qual colui che si vengiò con li orsi vide `l carro d`Elia al dipartire, quando i cavalli al cielo erti levorsi,  che nol potea con li occhi seguire, ch`el vedesse altro che la fiamma sola, come nuvoletta, in salire:  tal si move ciascuna per la gola del fosso, ché nessuna mostra `l furto, e ogne fiamma un peccatore invola.  Io stava sovra `l ponte a veder surto, che s`io non avessi un ronchion preso, caduto sarei giù sanz`esser urto.  E `l duca che mi vide tanto atteso, disse: «Dentro dai fuochi son li spirti; catun si fascia di quel ch`elli è inceso».  «Maestro mio», rispuos`io, «per udirti son io più certo; ma già m`era avviso che così fosse, e già voleva dirti:  chi è `n quel foco che vien diviso di sopra, che par surger de la pira dov`Eteòcle col fratel fu miso?».  Rispuose a me: «Là dentro si martira Ulisse e Diomede, e così insieme a la vendetta vanno come a l`ira;  e dentro da la lor fiamma si geme l`agguato del caval che la porta onde uscì de` Romani il gentil seme.  Piangevisi entro l`arte per che, morta, Deidamìa ancor si duol d`Achille, e del Palladio pena vi si porta».  «S`ei posson dentro da quelle faville parlar», diss`io, «maestro, assai ten priego e ripriego, che `l priego vaglia mille,  che non mi facci de l`attender niego fin che la fiamma cornuta qua vegna; vedi che del disio ver` lei mi piego!».  Ed elli a me: «La tua preghiera è degna di molta loda, e io però l`accetto; ma fa che la tua lingua si sostegna.  Lascia parlare a me, ch`i` ho concetto ciò che tu vuoi; ch`ei sarebbero schivi, perch`e` fuor greci, forse del tuo detto».  Poi che la fiamma fu venuta quivi dove parve al mio duca tempo e loco, in questa forma lui parlare audivi:  «O voi che siete due dentro ad un foco, s`io meritai di voi mentre ch`io vissi, s`io meritai di voi assai o poco  quando nel mondo li alti versi scrissi, non vi movete; ma l`un di voi dica dove, per lui, perduto a morir gissi».  Lo maggior corno de la fiamma antica cominciò a crollarsi mormorando pur come quella cui vento affatica;  indi la cima qua e menando, come fosse la lingua che parlasse, gittò voce di fuori, e disse: «Quando  mi diparti` da Circe, che sottrasse me più d`un anno presso a Gaeta, prima che Enea la nomasse,  né dolcezza di figlio, la pieta del vecchio padre, `l debito amore lo qual dovea Penelopé far lieta,  vincer potero dentro a me l`ardore ch`i` ebbi a divenir del mondo esperto, e de li vizi umani e del valore;  ma misi me per l`alto mare aperto sol con un legno e con quella compagna picciola da la qual non fui diserto.  L`un lito e l`altro vidi infin la Spagna, fin nel Morrocco, e l`isola d`i Sardi, e l`altre che quel mare intorno bagna.  Io e ` compagni eravam vecchi e tardi quando venimmo a quella foce stretta dov`Ercule segnò li suoi riguardi,  acciò che l`uom più oltre non si metta: da la man destra mi lasciai Sibilia, da l`altra già m`avea lasciata Setta.  "O frati", dissi "che per cento milia perigli siete giunti a l`occidente, a questa tanto picciola vigilia  d`i nostri sensi ch`è del rimanente, non vogliate negar l`esperienza, di retro al sol, del mondo sanza gente.  Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza".  Li miei compagni fec`io aguti, con questa orazion picciola, al cammino, che a pena poscia li avrei ritenuti;  e volta nostra poppa nel mattino, de` remi facemmo ali al folle volo, sempre acquistando dal lato mancino.  Tutte le stelle già de l`altro polo vedea la notte e `l nostro tanto basso, che non surgea fuor del marin suolo.  Cinque volte racceso e tante casso lo lume era di sotto da la luna, poi che `ntrati eravam ne l`alto passo,  quando n`apparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto quanto veduta non avea alcuna.  Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto, ché de la nova terra un turbo nacque, e percosse del legno il primo canto.  Tre volte il girar con tutte l`acque; a la quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, com`altrui piacque,  infin che `l mar fu sovra noi richiuso». Inferno: Canto XXVII  Già era dritta in la fiamma e queta per non dir più, e già da noi sen gia con la licenza del dolce poeta,  quand`un`altra, che dietro a lei venia, ne fece volger li occhi a la sua cima per un confuso suon che fuor n`uscia.  Come `l bue cicilian che mugghiò prima col pianto di colui, e ciò fu dritto, che l`avea temperato con sua lima,  mugghiava con la voce de l`afflitto, che, con tutto che fosse di rame, pur el pareva dal dolor trafitto;  così, per non aver via forame dal principio nel foco, in suo linguaggio si convertian le parole grame.  Ma poscia ch`ebber colto lor viaggio su per la punta, dandole quel guizzo che dato avea la lingua in lor passaggio,  udimmo dire: «O tu a cu` io drizzo la voce e che parlavi mo lombardo, dicendo "Istra ten va, più non t`adizzo",  perch`io sia giunto forse alquanto tardo, non t`incresca restare a parlar meco; vedi che non incresce a me, e ardo!  Se tu pur mo in questo mondo cieco caduto se` di quella dolce terra latina ond`io mia colpa tutta reco,  dimmi se Romagnuoli han pace o guerra; ch`io fui d`i monti intra Orbino e `l giogo di che Tever si diserra».  Io era in giuso ancora attento e chino, quando il mio duca mi tentò di costa, dicendo: «Parla tu; questi è latino».  E io, ch`avea già pronta la risposta, sanza indugio a parlare incominciai: «O anima che se` giù nascosta,  Romagna tua non è, e non fu mai, sanza guerra ne` cuor de` suoi tiranni; ma `n palese nessuna or vi lasciai.  Ravenna sta come stata è molt`anni: l`aguglia da Polenta la si cova, che Cervia ricuopre co` suoi vanni.  La terra che già la lunga prova e di Franceschi sanguinoso mucchio, sotto le branche verdi si ritrova.  E `l mastin vecchio e `l nuovo da Verrucchio, che fecer di Montagna il mal governo, dove soglion fan d`i denti succhio.  Le città di Lamone e di Santerno conduce il lioncel dal nido bianco, che muta parte da la state al verno.  E quella cu` il Savio bagna il fianco, così com`ella sie` tra `l piano e `l monte tra tirannia si vive e stato franco.  Ora chi se`, ti priego che ne conte; non esser duro più ch`altri sia stato, se `l nome tuo nel mondo tegna fronte».  Poscia che `l foco alquanto ebbe rugghiato al modo suo, l`aguta punta mosse di qua, di là, e poi diè cotal fiato:  «S`i` credesse che mia risposta fosse a persona che mai tornasse al mondo, questa fiamma staria sanza più scosse;  ma però che già mai di questo fondo non tornò vivo alcun, s`i` odo il vero, sanza tema d`infamia ti rispondo.  Io fui uom d`arme, e poi fui cordigliero, credendomi, cinto, fare ammenda; e certo il creder mio venìa intero,  se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!, che mi rimise ne le prime colpe; e come e quare, voglio che m`intenda.  Mentre ch`io forma fui d`ossa e di polpe che la madre mi diè, l`opere mie non furon leonine, ma di volpe.  Li accorgimenti e le coperte vie io seppi tutte, e menai lor arte, ch`al fine de la terra il suono uscie.  Quando mi vidi giunto in quella parte di mia etade ove ciascun dovrebbe calar le vele e raccoglier le sarte,  ciò che pria mi piacea, allor m`increbbe, e pentuto e confesso mi rendei; ahi miser lasso! e giovato sarebbe.  Lo principe d`i novi Farisei, avendo guerra presso a Laterano, e non con Saracin con Giudei,  ché ciascun suo nimico era cristiano, e nessun era stato a vincer Acri mercatante in terra di Soldano;  né sommo officio ordini sacri guardò in sé, in me quel capestro che solea fare i suoi cinti più macri.  Ma come Costantin chiese Silvestro d`entro Siratti a guerir de la lebbre; così mi chiese questi per maestro  a guerir de la sua superba febbre: domandommi consiglio, e io tacetti perché le sue parole parver ebbre.  E` poi ridisse: "Tuo cuor non sospetti; finor t`assolvo, e tu m`insegna fare come Penestrino in terra getti.  Lo ciel poss`io serrare e diserrare, come tu sai; però son due le chiavi che `l mio antecessor non ebbe care".  Allor mi pinser li argomenti gravi `ve `l tacer mi fu avviso `l peggio, e dissi: "Padre, da che tu mi lavi  di quel peccato ov`io mo cader deggio, lunga promessa con l`attender corto ti farà triunfar ne l`alto seggio".  Francesco venne poi com`io fu` morto, per me; ma un d`i neri cherubini li disse: "Non portar: non mi far torto.  Venir se ne dee giù tra ` miei meschini perché diede `l consiglio frodolente, dal quale in qua stato li sono a` crini;  ch`assolver non si può chi non si pente, pentere e volere insieme puossi per la contradizion che nol consente".  Oh me dolente! come mi riscossi quando mi prese dicendomi: "Forse tu non pensavi ch`io loico fossi!".  A Minòs mi portò; e quelli attorse otto volte la coda al dosso duro; e poi che per gran rabbia la si morse,  disse: "Questi è d`i rei del foco furo"; per ch`io dove vedi son perduto, e vestito, andando, mi rancuro».  Quand`elli ebbe `l suo dir così compiuto, la fiamma dolorando si partio, torcendo e dibattendo `l corno aguto.  Noi passamm`oltre, e io e `l duca mio, su per lo scoglio infino in su l`altr`arco che cuopre `l fosso in che si paga il fio  a quei che scommettendo acquistan carco. Inferno: Canto XXVIII  Chi poria mai pur con parole sciolte dicer del sangue e de le piaghe a pieno ch`i` ora vidi, per narrar più volte?  Ogne lingua per certo verria meno per lo nostro sermone e per la mente c`hanno a tanto comprender poco seno.  S`el s`aunasse ancor tutta la gente che già in su la fortunata terra di Puglia, fu del suo sangue dolente  per li Troiani e per la lunga guerra che de l`anella alte spoglie, come Livio scrive, che non erra,  con quella che sentio di colpi doglie per contastare a Ruberto Guiscardo; e l`altra il cui ossame ancor s`accoglie  a Ceperan, dove fu bugiardo ciascun Pugliese, e da Tagliacozzo, dove sanz`arme vinse il vecchio Alardo;  e qual forato suo membro e qual mozzo mostrasse, d`aequar sarebbe nulla il modo de la nona bolgia sozzo.  Già veggia, per mezzul perdere o lulla, com`io vidi un, così non si pertugia, rotto dal mento infin dove si trulla.  Tra le gambe pendevan le minugia; la corata pareva e `l tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia.  Mentre che tutto in lui veder m`attacco, guardommi, e con le man s`aperse il petto, dicendo: «Or vedi com`io mi dilacco!  vedi come storpiato è Maometto! Dinanzi a me sen va piangendo Alì, fesso nel volto dal mento al ciuffetto.  E tutti li altri che tu vedi qui, seminator di scandalo e di scisma fuor vivi, e però son fessi così.  Un diavolo è qua dietro che n`accisma crudelmente, al taglio de la spada rimettendo ciascun di questa risma,  quand`avem volta la dolente strada; però che le ferite son richiuse prima ch`altri dinanzi li rivada.  Ma tu chi se` che `n su lo scoglio muse, forse per indugiar d`ire a la pena ch`è giudicata in su le tue accuse?».  «Né morte `l giunse ancor, colpa `l mena», rispuose `l mio maestro «a tormentarlo; ma per dar lui esperienza piena,  a me, che morto son, convien menarlo per lo `nferno qua giù di giro in giro; e quest`è ver così com`io ti parlo».  Più fuor di cento che, quando l`udiro, s`arrestaron nel fosso a riguardarmi per maraviglia obliando il martiro.  «Or a fra Dolcin dunque che s`armi, tu che forse vedra` il sole in breve, s`ello non vuol qui tosto seguitarmi,  sì di vivanda, che stretta di neve non rechi la vittoria al Noarese, ch`altrimenti acquistar non sarìa leve».  Poi che l`un piè per girsene sospese, Maometto mi disse esta parola; indi a partirsi in terra lo distese.  Un altro, che forata avea la gola e tronco `l naso infin sotto le ciglia, e non avea mai ch`una orecchia sola,  ristato a riguardar per maraviglia con li altri, innanzi a li altri aprì la canna, ch`era di fuor d`ogni parte vermiglia,  e disse: «O tu cui colpa non condanna e cu` io vidi su in terra latina, se troppa simiglianza non m`inganna,  rimembriti di Pier da Medicina, se mai torni a veder lo dolce piano che da Vercelli a Marcabò dichina.  E fa saper a` due miglior da Fano, a messer Guido e anco ad Angiolello, che, se l`antiveder qui non è vano,  gittati saran fuor di lor vasello e mazzerati presso a la Cattolica per tradimento d`un tiranno fello.  Tra l`isola di Cipri e di Maiolica non vide mai gran fallo Nettuno, non da pirate, non da gente argolica.  Quel traditor che vede pur con l`uno, e tien la terra che tale qui meco vorrebbe di vedere esser digiuno,  farà venirli a parlamento seco; poi farà sì, ch`al vento di Focara non sarà lor mestier voto preco».  E io a lui: «Dimostrami e dichiara, se vuo` ch`i` porti di te novella, chi è colui da la veduta amara».  Allor puose la mano a la mascella d`un suo compagno e la bocca li aperse, gridando: «Questi è desso, e non favella.  Questi, scacciato, il dubitar sommerse in Cesare, affermando che `l fornito sempre con danno l`attender sofferse».  Oh quanto mi pareva sbigottito con la lingua tagliata ne la strozza Curio, ch`a dir fu così ardito!  E un ch`avea l`una e l`altra man mozza, levando i moncherin per l`aura fosca, che `l sangue facea la faccia sozza,  gridò: «Ricordera`ti anche del Mosca, che disse, lasso!, "Capo ha cosa fatta", che fu mal seme per la gente tosca».  E io li aggiunsi: «E morte di tua schiatta»; per ch`elli, accumulando duol con duolo, sen gio come persona trista e matta.  Ma io rimasi a riguardar lo stuolo, e vidi cosa, ch`io avrei paura, sanza più prova, di contarla solo;  se non che coscienza m`assicura, la buona compagnia che l`uom francheggia sotto l`asbergo del sentirsi pura.  Io vidi certo, e ancor par ch`io `l veggia, un busto sanza capo andar come andavan li altri de la trista greggia;  e `l capo tronco tenea per le chiome, pesol con mano a guisa di lanterna; e quel mirava noi e dicea: «Oh me!».  Di facea a stesso lucerna, ed eran due in uno e uno in due:
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