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Dante Alighieri - Inferno (Italian)Dante Alighieri - Inferno (Italian)
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gridavan tutti insieme i maladetti.  E io: «Maestro mio, fa, se tu puoi, che tu sappi chi è lo sciagurato venuto a man de li avversari suoi».  Lo duca mio li s`accostò allato; domandollo ond`ei fosse, e quei rispuose: «I` fui del regno di Navarra nato.  Mia madre a servo d`un segnor mi puose, che m`avea generato d`un ribaldo, distruggitor di e di sue cose.  Poi fui famiglia del buon re Tebaldo: quivi mi misi a far baratteria; di ch`io rendo ragione in questo caldo».  E Ciriatto, a cui di bocca uscia d`ogne parte una sanna come a porco, li sentir come l`una sdruscia.  Tra male gatte era venuto `l sorco; ma Barbariccia il chiuse con le braccia, e disse: «State in là, mentr`io lo `nforco».  E al maestro mio volse la faccia: «Domanda», disse, «ancor, se più disii saper da lui, prima ch`altri `l disfaccia».  Lo duca dunque: «Or : de li altri rii conosci tu alcun che sia latino sotto la pece?». E quelli: «I` mi partii,  poco è, da un che fu di vicino. Così foss`io ancor con lui coperto, ch`i` non temerei unghia uncino!».  E Libicocco «Troppo avem sofferto», disse; e preseli `l braccio col runciglio, che, stracciando, ne portò un lacerto.  Draghignazzo anco i volle dar di piglio giuso a le gambe; onde `l decurio loro si volse intorno intorno con mal piglio.  Quand`elli un poco rappaciati fuoro, a lui, ch`ancor mirava sua ferita, domandò `l duca mio sanza dimoro:  «Chi fu colui da cui mala partita di` che facesti per venire a proda?». Ed ei rispuose: «Fu frate Gomita,  quel di Gallura, vasel d`ogne froda, ch`ebbe i nemici di suo donno in mano, e lor, che ciascun se ne loda.  Danar si tolse, e lasciolli di piano, com`e` dice; e ne li altri offici anche barattier fu non picciol, ma sovrano.  Usa con esso donno Michel Zanche di Logodoro; e a dir di Sardigna le lingue lor non si sentono stanche.  Omè, vedete l`altro che digrigna: i` direi anche, ma i` temo ch`ello non s`apparecchi a grattarmi la tigna».  E `l gran proposto, vòlto a Farfarello che stralunava li occhi per fedire, disse: «Fatti `n costà, malvagio uccello!».  «Se voi volete vedere o udire», ricominciò lo spaurato appresso «Toschi o Lombardi, io ne farò venire;  ma stieno i Malebranche un poco in cesso, ch`ei non teman de le lor vendette; e io, seggendo in questo loco stesso,  per un ch`io son, ne farò venir sette quand`io suffolerò, com`è nostro uso di fare allor che fori alcun si mette».  Cagnazzo a cotal motto levò `l muso, crollando `l capo, e disse: «Odi malizia ch`elli ha pensata per gittarsi giuso!».  Ond`ei, ch`avea lacciuoli a gran divizia, rispuose: «Malizioso son io troppo, quand`io procuro a` mia maggior trestizia».  Alichin non si tenne e, di rintoppo a li altri, disse a lui: «Se tu ti cali, io non ti verrò dietro di gualoppo,  ma batterò sovra la pece l`ali. Lascisi `l collo, e sia la ripa scudo, a veder se tu sol più di noi vali».  O tu che leggi, udirai nuovo ludo: ciascun da l`altra costa li occhi volse; quel prima, ch`a ciò fare era più crudo.  Lo Navarrese ben suo tempo colse; fermò le piante a terra, e in un punto saltò e dal proposto lor si sciolse.  Di che ciascun di colpa fu compunto, ma quei più che cagion fu del difetto; però si mosse e gridò: «Tu se` giunto!».  Ma poco i valse: ché l`ali al sospetto non potero avanzar: quelli andò sotto, e quei drizzò volando suso il petto:  non altrimenti l`anitra di botto, quando `l falcon s`appressa, giù s`attuffa, ed ei ritorna crucciato e rotto.  Irato Calcabrina de la buffa, volando dietro li tenne, invaghito che quei campasse per aver la zuffa;  e come `l barattier fu disparito, così volse li artigli al suo compagno, e fu con lui sopra `l fosso ghermito.  Ma l`altro fu bene sparvier grifagno ad artigliar ben lui, e amendue cadder nel mezzo del bogliente stagno.  Lo caldo sghermitor sùbito fue; ma però di levarsi era neente, avieno inviscate l`ali sue.  Barbariccia, con li altri suoi dolente, quattro ne volar da l`altra costa con tutt`i raffi, e assai prestamente  di qua, di discesero a la posta; porser li uncini verso li `mpaniati, ch`eran già cotti dentro da la crosta;  e noi lasciammo lor così `mpacciati. Inferno: Canto XXIII  Taciti, soli, sanza compagnia n`andavam l`un dinanzi e l`altro dopo, come frati minor vanno per via.  Vòlt`era in su la favola d`Isopo lo mio pensier per la presente rissa, dov`el parlò de la rana e del topo;  ché più non si pareggia `mo` e `issa` che l`un con l`altro fa, se ben s`accoppia principio e fine con la mente fissa.  E come l`un pensier de l`altro scoppia, così nacque di quello un altro poi, che la prima paura mi doppia.  Io pensava così: `Questi per noi sono scherniti con danno e con beffa fatta, ch`assai credo che lor nòi.  Se l`ira sovra `l mal voler s`aggueffa, ei ne verranno dietro più crudeli che `l cane a quella lievre ch`elli acceffa`.  Già mi sentia tutti arricciar li peli de la paura e stava in dietro intento, quand`io dissi: «Maestro, se non celi  te e me tostamente, i` ho pavento d`i Malebranche. Noi li avem già dietro; io li `magino sì, che già li sento».  E quei: «S`i` fossi di piombato vetro, l`imagine di fuor tua non trarrei più tosto a me, che quella dentro `mpetro.  Pur mo venieno i tuo` pensier tra ` miei, con simile atto e con simile faccia, che d`intrambi un sol consiglio fei.  S`elli è che la destra costa giaccia, che noi possiam ne l`altra bolgia scendere, noi fuggirem l`imaginata caccia».  Già non compié di tal consiglio rendere, ch`io li vidi venir con l`ali tese non molto lungi, per volerne prendere.  Lo duca mio di sùbito mi prese, come la madre ch`al romore è desta e vede presso a le fiamme accese,  che prende il figlio e fugge e non s`arresta, avendo più di lui che di cura, tanto che solo una camiscia vesta;  e giù dal collo de la ripa dura supin si diede a la pendente roccia, che l`un de` lati a l`altra bolgia tura.  Non corse mai tosto acqua per doccia a volger ruota di molin terragno, quand`ella più verso le pale approccia,  come `l maestro mio per quel vivagno, portandosene me sovra `l suo petto, come suo figlio, non come compagno.  A pena fuoro i piè suoi giunti al letto del fondo giù, ch`e` furon in sul colle sovresso noi; ma non era sospetto;  ché l`alta provedenza che lor volle porre ministri de la fossa quinta, poder di partirs`indi a tutti tolle.  Là giù trovammo una gente dipinta che giva intorno assai con lenti passi, piangendo e nel sembiante stanca e vinta.  Elli avean cappe con cappucci bassi dinanzi a li occhi, fatte de la taglia che in Clugnì per li monaci fassi.  Di fuor dorate son, ch`elli abbaglia; ma dentro tutte piombo, e gravi tanto, che Federigo le mettea di paglia.  Oh in etterno faticoso manto! Noi ci volgemmo ancor pur a man manca con loro insieme, intenti al tristo pianto;  ma per lo peso quella gente stanca venìa pian, che noi eravam nuovi di compagnia ad ogne mover d`anca.  Per ch`io al duca mio: «Fa che tu trovi alcun ch`al fatto o al nome si conosca, e li occhi, andando, intorno movi».  E un che `ntese la parola tosca, di retro a noi gridò: «Tenete i piedi, voi che correte per l`aura fosca!  Forse ch`avrai da me quel che tu chiedi». Onde `l duca si volse e disse: «Aspetta e poi secondo il suo passo procedi».  Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta de l`animo, col viso, d`esser meco; ma tardavali `l carco e la via stretta.  Quando fuor giunti, assai con l`occhio bieco mi rimiraron sanza far parola; poi si volsero in sé, e dicean seco:  «Costui par vivo a l`atto de la gola; e s`e` son morti, per qual privilegio vanno scoperti de la grave stola?».  Poi disser me: «O Tosco, ch`al collegio de l`ipocriti tristi se` venuto, dir chi tu se` non avere in dispregio».  E io a loro: «I` fui nato e cresciuto sovra `l bel fiume d`Arno a la gran villa, e son col corpo ch`i` ho sempre avuto.  Ma voi chi siete, a cui tanto distilla quant`i` veggio dolor giù per le guance? e che pena è in voi che sfavilla?».  E l`un rispuose a me: «Le cappe rance son di piombo grosse, che li pesi fan così cigolar le lor bilance.  Frati godenti fummo, e bolognesi; io Catalano e questi Loderingo nomati, e da tua terra insieme presi,  come suole esser tolto un uom solingo, per conservar sua pace; e fummo tali, ch`ancor si pare intorno dal Gardingo».  Io cominciai: «O frati, i vostri mali…»; ma più non dissi, ch`a l`occhio mi corse un, crucifisso in terra con tre pali.  Quando mi vide, tutto si distorse, soffiando ne la barba con sospiri; e `l frate Catalan, ch`a ciò s`accorse,  mi disse: «Quel confitto che tu miri, consigliò i Farisei che convenia porre un uom per lo popolo a` martìri.  Attraversato è, nudo, ne la via, come tu vedi, ed è mestier ch`el senta qualunque passa, come pesa, pria.  E a tal modo il socero si stenta in questa fossa, e li altri dal concilio che fu per li Giudei mala sementa».  Allor vid`io maravigliar Virgilio sovra colui ch`era disteso in croce tanto vilmente ne l`etterno essilio.  Poscia drizzò al frate cotal voce: «Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci s`a la man destra giace alcuna foce  onde noi amendue possiamo uscirci, sanza costrigner de li angeli neri che vegnan d`esto fondo a dipartirci».  Rispuose adunque: «Più che tu non speri s`appressa un sasso che de la gran cerchia si move e varca tutt`i vallon feri,  salvo che `n questo è rotto e nol coperchia: montar potrete su per la ruina, che giace in costa e nel fondo soperchia».  Lo duca stette un poco a testa china; poi disse: «Mal contava la bisogna colui che i peccator di qua uncina».  E `l frate: «Io udi` già dire a Bologna del diavol vizi assai, tra ` quali udi` ch`elli è bugiardo, e padre di menzogna».  Appresso il duca a gran passi sen gì, turbato un poco d`ira nel sembiante; ond`io da li `ncarcati mi parti`  dietro a le poste de le care piante. Inferno: Canto XXIV  In quella parte del giovanetto anno che `l sole i crin sotto l`Aquario tempra e già le notti al mezzo sen vanno,  quando la brina in su la terra assempra l`imagine di sua sorella bianca, ma poco dura a la sua penna tempra,  lo villanello a cui la roba manca, si leva, e guarda, e vede la campagna biancheggiar tutta; ond`ei si batte l`anca,  ritorna in casa, e qua e si lagna, come `l tapin che non sa che si faccia; poi riede, e la speranza ringavagna,  veggendo `l mondo aver cangiata faccia in poco d`ora, e prende suo vincastro, e fuor le pecorelle a pascer caccia.  Così mi fece sbigottir lo mastro quand`io li vidi turbar la fronte, e così tosto al mal giunse lo `mpiastro;  ché, come noi venimmo al guasto ponte, lo duca a me si volse con quel piglio dolce ch`io vidi prima a piè del monte.  Le braccia aperse, dopo alcun consiglio eletto seco riguardando prima ben la ruina, e diedemi di piglio.  E come quei ch`adopera ed estima, che sempre par che `nnanzi si proveggia, così, levando me ver la cima  d`un ronchione, avvisava un`altra scheggia dicendo: «Sovra quella poi t`aggrappa; ma tenta pria s`è tal ch`ella ti reggia».  Non era via da vestito di cappa, ché noi a pena, ei lieve e io sospinto, potavam montar di chiappa in chiappa.  E se non fosse che da quel precinto più che da l`altro era la costa corta, non so di lui, ma io sarei ben vinto.  Ma perché Malebolge inver` la porta del bassissimo pozzo tutta pende, lo sito di ciascuna valle porta  che l`una costa surge e l`altra scende; noi pur venimmo al fine in su la punta onde l`ultima pietra si scoscende.  La lena m`era del polmon munta quand`io fui sù, ch`i` non potea più oltre, anzi m`assisi ne la prima giunta.  «Omai convien che tu così ti spoltre», disse `l maestro; «ché, seggendo in piuma, in fama non si vien, sotto coltre;  sanza la qual chi sua vita consuma, cotal vestigio in terra di lascia, qual fummo in aere e in acqua la schiuma.  E però leva sù: vinci l`ambascia con l`animo che vince ogne battaglia, se col suo grave corpo non s`accascia.  Più lunga scala convien che si saglia; non basta da costoro esser partito. Se tu mi `ntendi, or fa che ti vaglia».  Leva`mi allor, mostrandomi fornito meglio di lena ch`i` non mi sentìa; e dissi: «Va, ch`i` son forte e ardito».  Su per lo scoglio prendemmo la via, ch`era ronchioso, stretto e malagevole, ed erto più assai che quel di pria.  Parlando andava per non parer fievole; onde una voce uscì de l`altro fosso, a parole formar disconvenevole.  Non so che disse, ancor che sovra `l dosso fossi de l`arco già che varca quivi; ma chi parlava ad ire parea mosso.  Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi non poteano ire al fondo per lo scuro; per ch`io: «Maestro, fa che tu arrivi  da l`altro cinghio e dismontiam lo muro; ché, com`i` odo quinci e non intendo, così giù veggio e neente affiguro».  «Altra risposta», disse, «non ti rendo se non lo far; ché la dimanda onesta si de` seguir con l`opera tacendo».  Noi discendemmo il ponte da la testa dove s`aggiugne con l`ottava ripa, e poi mi fu la bolgia manifesta:  e vidivi entro terribile stipa di serpenti, e di diversa mena che la memoria il sangue ancor mi scipa.  Più non si vanti Libia con sua rena; ché se chelidri, iaculi e faree produce, e cencri con anfisibena,  né tante pestilenzie ree mostrò già mai con tutta l`Etiopia con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.  Tra questa cruda e tristissima copia correan genti nude e spaventate, sanza sperar pertugio o elitropia:  con serpi le man dietro avean legate; quelle ficcavan per le ren la coda e `l capo, ed eran dinanzi aggroppate.  Ed ecco a un ch`era da nostra proda, s`avventò un serpente che `l trafisse dove `l collo a le spalle s`annoda.  Né O tosto mai I si scrisse, com`el s`accese e arse, e cener tutto convenne che cascando divenisse;  e poi che fu a terra distrutto, la polver si raccolse per stessa, e `n quel medesmo ritornò di butto.  Così per li gran savi si confessa che la fenice more e poi rinasce, quando al cinquecentesimo anno appressa;  erba biado in sua vita non pasce, ma sol d`incenso lagrime e d`amomo, e nardo e mirra son l`ultime fasce.  E qual è quel che cade, e non sa como, per forza di demon ch`a terra il tira, o d`altra oppilazion che lega l`omo,  quando si leva, che `ntorno si mira tutto smarrito de la grande angoscia ch`elli ha sofferta, e guardando sospira:  tal era il peccator levato poscia. Oh potenza di Dio, quant`è severa, che cotai colpi per vendetta croscia!  Lo duca il domandò poi chi ello era; per ch`ei rispuose: «Io piovvi di Toscana, poco tempo è, in questa gola fiera.  Vita bestial mi piacque e non umana, come a mul ch`i` fui; son Vanni Fucci bestia, e Pistoia mi fu degna tana».  E io al duca: «Dilli che non mucci, e domanda che colpa qua giù `l pinse; ch`io `l vidi uomo di sangue e di crucci».  E `l peccator, che `ntese, non s`infinse, ma drizzò verso me l`animo e `l volto, e di trista vergogna si dipinse;  poi disse: «Più mi duol che tu m`hai colto ne la miseria dove tu mi vedi, che quando fui de l`altra vita tolto.  Io non posso negar quel che tu chiedi; in giù son messo tanto perch`io fui ladro a la sagrestia d`i belli arredi,  e falsamente già fu apposto altrui. Ma perché di tal vista tu non godi, se mai sarai di fuor da` luoghi bui,  apri li orecchi al mio annunzio, e odi: Pistoia in pria d`i Neri si dimagra; poi Fiorenza rinova gente e modi.  Tragge Marte vapor di Val di Magra ch`è di torbidi nuvoli involuto; e con tempesta impetuosa e agra  sovra Campo Picen fia combattuto; ond`ei repente spezzerà la nebbia, ch`ogne Bianco ne sarà feruto.  E detto l`ho perché doler ti debbia!». Inferno: Canto XXV  Al fine de le sue parole il ladro le mani alzò con amendue le fiche, gridando: «Togli, Dio, ch`a te le squadro!».  Da indi in qua mi fuor le serpi amiche, perch`una li s`avvolse allora al collo, come dicesse `Non vo` che più diche`;  e un`altra a le braccia, e rilegollo, ribadendo stessa dinanzi, che non potea con esse dare un crollo.  Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi d`incenerarti che più non duri, poi che `n mal fare il seme tuo avanzi?  Per tutt`i cerchi de lo `nferno scuri non vidi spirto in Dio tanto superbo, non quel che cadde a Tebe giù da` muri.  El si fuggì che non parlò più verbo; e io vidi un centauro pien di rabbia venir chiamando: «Ov`è, ov`è l`acerbo?».  Maremma non cred`io che tante n`abbia, quante bisce elli avea su per la groppa infin ove comincia nostra labbia.  Sovra le spalle, dietro da la coppa, con l`ali aperte li giacea un draco; e quello affuoca qualunque s`intoppa.  Lo mio maestro disse: «Questi è Caco, che sotto `l sasso di monte Aventino di sangue fece spesse volte laco.  Non va co` suoi fratei per un cammino, per lo furto che frodolente fece del grande armento ch`elli ebbe a vicino;  onde cessar le sue opere biece sotto la mazza d`Ercule, che forse gliene diè cento, e non sentì le diece».  Mentre che parlava, ed el trascorse e tre spiriti venner sotto noi, de` quali io `l duca mio s`accorse,  se non quando gridar: «Chi siete voi?»; per che nostra novella si ristette, e intendemmo pur ad essi poi.  Io non li conoscea; ma ei seguette, come suol seguitar per alcun caso, che l`un nomar un altro convenette,  dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»; per ch`io, acciò che `l duca stesse attento, mi puosi `l dito su dal mento al naso.  Se tu se` or, lettore, a creder lento ciò ch`io dirò, non sarà maraviglia, ché io che `l vidi, a pena il mi consento.  Com`io tenea levate in lor le ciglia, e un serpente con sei piè si lancia dinanzi a l`uno, e tutto a lui s`appiglia.  Co` piè di mezzo li avvinse la pancia, e con li anterior le braccia prese; poi li addentò e l`una e l`altra guancia;  li diretani a le cosce distese, e miseli la coda tra `mbedue, e dietro per le ren la ritese.  Ellera abbarbicata mai non fue ad alber sì, come l`orribil fiera per l`altrui membra avviticchiò le sue.  Poi s`appiccar, come di calda cera fossero stati, e mischiar lor colore, l`un l`altro già parea quel ch`era:  come procede innanzi da l`ardore, per lo papiro suso, un color bruno che non è nero ancora e `l bianco more.  Li altri due `l riguardavano, e ciascuno gridava: «Omè, Agnel, come ti muti! Vedi che già non se` due uno».  Già eran li due capi un divenuti, quando n`apparver due figure miste in una faccia, ov`eran due perduti.  Fersi le braccia due di quattro liste;
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