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Dante Alighieri - Inferno (Italian)Dante Alighieri - Inferno (Italian)
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ci riguardava come suol da sera  guardare uno altro sotto nuova luna; e ver` noi aguzzavan le ciglia come `l vecchio sartor fa ne la cruna.  Così adocchiato da cotal famiglia, fui conosciuto da un, che mi prese per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!».  E io, quando `l suo braccio a me distese, ficcai li occhi per lo cotto aspetto, che `l viso abbrusciato non difese  la conoscenza sua al mio `ntelletto; e chinando la mano a la sua faccia, rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?».  E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia se Brunetto Latino un poco teco ritorna `n dietro e lascia andar la traccia».  I` dissi lui: «Quanto posso, ven preco; e se volete che con voi m`asseggia, faròl, se piace a costui che vo seco».  «O figliuol», disse, «qual di questa greggia s`arresta punto, giace poi cent`anni sanz`arrostarsi quando `l foco il feggia.  Però va oltre: i` ti verrò a` panni; e poi rigiugnerò la mia masnada, che va piangendo i suoi etterni danni».  I` non osava scender de la strada per andar par di lui; ma `l capo chino tenea com`uom che reverente vada.  El cominciò: «Qual fortuna o destino anzi l`ultimo qua giù ti mena? e chi è questi che mostra `l cammino?».  «Là di sopra, in la vita serena», rispuos`io lui, «mi smarri` in una valle, avanti che l`età mia fosse piena.  Pur ier mattina le volsi le spalle: questi m`apparve, tornand`io in quella, e reducemi a ca per questo calle».  Ed elli a me: «Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorioso porto, se ben m`accorsi ne la vita bella;  e s`io non fossi per tempo morto, veggendo il cielo a te così benigno, dato t`avrei a l`opera conforto.  Ma quello ingrato popolo maligno che discese di Fiesole ab antico, e tiene ancor del monte e del macigno,  ti si farà, per tuo ben far, nimico: ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi si disconvien fruttare al dolce fico.  Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; gent`è avara, invidiosa e superba: dai lor costumi fa che tu ti forbi.  La tua fortuna tanto onor ti serba, che l`una parte e l`altra avranno fame di te; ma lungi fia dal becco l`erba.  Faccian le bestie fiesolane strame di lor medesme, e non tocchin la pianta, s`alcuna surge ancora in lor letame,  in cui riviva la sementa santa di que` Roman che vi rimaser quando fu fatto il nido di malizia tanta».  «Se fosse tutto pieno il mio dimando», rispuos`io lui, «voi non sareste ancora de l`umana natura posto in bando;  ché `n la mente m`è fitta, e or m`accora, la cara e buona imagine paterna di voi quando nel mondo ad ora ad ora  m`insegnavate come l`uom s`etterna: e quant`io l`abbia in grado, mentr`io vivo convien che ne la mia lingua si scerna.  Ciò che narrate di mio corso scrivo, e serbolo a chiosar con altro testo a donna che saprà, s`a lei arrivo.  Tanto vogl`io che vi sia manifesto, pur che mia coscienza non mi garra, che a la Fortuna, come vuol, son presto.  Non è nuova a li orecchi miei tal arra: però giri Fortuna la sua rota come le piace, e `l villan la sua marra».  Lo mio maestro allora in su la gota destra si volse in dietro, e riguardommi; poi disse: «Bene ascolta chi la nota».  Né per tanto di men parlando vommi con ser Brunetto, e dimando chi sono li suoi compagni più noti e più sommi.  Ed elli a me: «Saper d`alcuno è buono; de li altri fia laudabile tacerci, ché `l tempo sarìa corto a tanto suono.  In somma sappi che tutti fur cherci e litterati grandi e di gran fama, d`un peccato medesmo al mondo lerci.  Priscian sen va con quella turba grama, e Francesco d`Accorso anche; e vedervi, s`avessi avuto di tal tigna brama,  colui potei che dal servo de` servi fu trasmutato d`Arno in Bacchiglione, dove lasciò li mal protesi nervi.  Di più direi; ma `l venire e `l sermone più lungo esser non può, però ch`i` veggio surger nuovo fummo del sabbione.  Gente vien con la quale esser non deggio. Sieti raccomandato il mio Tesoro nel qual io vivo ancora, e più non cheggio».  Poi si rivolse, e parve di coloro che corrono a Verona il drappo verde per la campagna; e parve di costoro  quelli che vince, non colui che perde. Inferno: Canto XVI  Già era in loco onde s`udìa `l rimbombo de l`acqua che cadea ne l`altro giro, simile a quel che l`arnie fanno rombo,  quando tre ombre insieme si partiro, correndo, d`una torma che passava sotto la pioggia de l`aspro martiro.  Venian ver noi, e ciascuna gridava: «Sòstati tu ch`a l`abito ne sembri esser alcun di nostra terra prava».  Ahimè, che piaghe vidi ne` lor membri ricenti e vecchie, da le fiamme incese! Ancor men duol pur ch`i` me ne rimembri.  A le lor grida il mio dottor s`attese; volse `l viso ver me, e: «Or aspetta», disse «a costor si vuole esser cortese.  E se non fosse il foco che saetta la natura del loco, i` dicerei che meglio stesse a te che a lor la fretta».  Ricominciar, come noi restammo, ei l`antico verso; e quando a noi fuor giunti, fenno una rota di tutti e trei.  Qual sogliono i campion far nudi e unti, avvisando lor presa e lor vantaggio, prima che sien tra lor battuti e punti,  così rotando, ciascuno il visaggio drizzava a me, che `n contraro il collo faceva ai piè continuo viaggio.  E «Se miseria d`esto loco sollo rende in dispetto noi e nostri prieghi», cominciò l`uno «e `l tinto aspetto e brollo,  la fama nostra il tuo animo pieghi a dirne chi tu se`, che i vivi piedi così sicuro per lo `nferno freghi.  Questi, l`orme di cui pestar mi vedi, tutto che nudo e dipelato vada, fu di grado maggior che tu non credi:  nepote fu de la buona Gualdrada; Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita fece col senno assai e con la spada.  L`altro, ch`appresso me la rena trita, è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce nel mondo dovrìa esser gradita.  E io, che posto son con loro in croce, Iacopo Rusticucci fui; e certo la fiera moglie più ch`altro mi nuoce».  S`i` fossi stato dal foco coperto, gittato mi sarei tra lor di sotto, e credo che `l dottor l`avrìa sofferto;  ma perch`io mi sarei brusciato e cotto, vinse paura la mia buona voglia che di loro abbracciar mi facea ghiotto.  Poi cominciai: «Non dispetto, ma doglia la vostra condizion dentro mi fisse, tanta che tardi tutta si dispoglia,  tosto che questo mio segnor mi disse parole per le quali i` mi pensai che qual voi siete, tal gente venisse.  Di vostra terra sono, e sempre mai l`ovra di voi e li onorati nomi con affezion ritrassi e ascoltai.  Lascio lo fele e vo per dolci pomi promessi a me per lo verace duca; ma `nfino al centro pria convien ch`i` tomi».  «Se lungamente l`anima conduca le membra tue», rispuose quelli ancora, «e se la fama tua dopo te luca,  cortesia e valor se dimora ne la nostra città come suole, o se del tutto se n`è gita fora;  ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole con noi per poco e va coi compagni, assai ne cruccia con le sue parole».  «La gente nuova e i sùbiti guadagni orgoglio e dismisura han generata, Fiorenza, in te, che tu già ten piagni».  Così gridai con la faccia levata; e i tre, che ciò inteser per risposta, guardar l`un l`altro com`al ver si guata.  «Se l`altre volte poco ti costa», rispuoser tutti «il satisfare altrui, felice te se parli a tua posta!  Però, se campi d`esti luoghi bui e torni a riveder le belle stelle, quando ti gioverà dicere "I` fui",  fa che di noi a la gente favelle». Indi rupper la rota, e a fuggirsi ali sembiar le gambe loro isnelle.  Un amen non saria potuto dirsi tosto così com`e` fuoro spariti; per ch`al maestro parve di partirsi.  Io lo seguiva, e poco eravam iti, che `l suon de l`acqua n`era vicino, che per parlar saremmo a pena uditi.  Come quel fiume c`ha proprio cammino prima dal Monte Viso `nver` levante, da la sinistra costa d`Apennino,  che si chiama Acquacheta suso, avante che si divalli giù nel basso letto, e a Forlì di quel nome è vacante,  rimbomba sovra San Benedetto de l`Alpe per cadere ad una scesa ove dovea per mille esser recetto;  così, giù d`una ripa discoscesa, trovammo risonar quell`acqua tinta, che `n poc`ora avria l`orecchia offesa.  Io avea una corda intorno cinta, e con essa pensai alcuna volta prender la lonza a la pelle dipinta.  Poscia ch`io l`ebbi tutta da me sciolta, come `l duca m`avea comandato, porsila a lui aggroppata e ravvolta.  Ond`ei si volse inver` lo destro lato, e alquanto di lunge da la sponda la gittò giuso in quell`alto burrato.  `E` pur convien che novità risponda` dicea fra me medesmo `al novo cenno che `l maestro con l`occhio seconda`.  Ahi quanto cauti li uomini esser dienno presso a color che non veggion pur l`ovra, ma per entro i pensier miran col senno!  El disse a me: «Tosto verrà di sovra ciò ch`io attendo e che il tuo pensier sogna: tosto convien ch`al tuo viso si scovra».  Sempre a quel ver c`ha faccia di menzogna de` l`uom chiuder le labbra fin ch`el puote, però che sanza colpa fa vergogna;  ma qui tacer nol posso; e per le note di questa comedìa, lettor, ti giuro, s`elle non sien di lunga grazia vòte,  ch`i` vidi per quell`aere grosso e scuro venir notando una figura in suso, maravigliosa ad ogne cor sicuro,  sì come torna colui che va giuso talora a solver l`àncora ch`aggrappa o scoglio o altro che nel mare è chiuso,  che `n si stende, e da piè si rattrappa. Inferno: Canto XVII  «Ecco la fiera con la coda aguzza, che passa i monti, e rompe i muri e l`armi! Ecco colei che tutto `l mondo appuzza!».  Sì cominciò lo mio duca a parlarmi; e accennolle che venisse a proda vicino al fin d`i passeggiati marmi.  E quella sozza imagine di froda sen venne, e arrivò la testa e `l busto, ma `n su la riva non trasse la coda.  La faccia sua era faccia d`uom giusto, tanto benigna avea di fuor la pelle, e d`un serpente tutto l`altro fusto;  due branche avea pilose insin l`ascelle; lo dosso e `l petto e ambedue le coste dipinti avea di nodi e di rotelle.  Con più color, sommesse e sovraposte non fer mai drappi Tartari Turchi, fuor tai tele per Aragne imposte.  Come tal volta stanno a riva i burchi, che parte sono in acqua e parte in terra, e come tra li Tedeschi lurchi  lo bivero s`assetta a far sua guerra, così la fiera pessima si stava su l`orlo ch`è di pietra e `l sabbion serra.  Nel vano tutta sua coda guizzava, torcendo in la venenosa forca ch`a guisa di scorpion la punta armava.  Lo duca disse: «Or convien che si torca la nostra via un poco insino a quella bestia malvagia che colà si corca».  Però scendemmo a la destra mammella, e diece passi femmo in su lo stremo, per ben cessar la rena e la fiammella.  E quando noi a lei venuti semo, poco più oltre veggio in su la rena gente seder propinqua al loco scemo.  Quivi `l maestro «Acciò che tutta piena esperienza d`esto giron porti», mi disse, «va, e vedi la lor mena.  Li tuoi ragionamenti sian corti: mentre che torni, parlerò con questa, che ne conceda i suoi omeri forti».  Così ancor su per la strema testa di quel settimo cerchio tutto solo andai, dove sedea la gente mesta.  Per li occhi fora scoppiava lor duolo; è di qua, di soccorrien con le mani quando a` vapori, e quando al caldo suolo:  non altrimenti fan di state i cani or col ceffo, or col piè, quando son morsi o da pulci o da mosche o da tafani.  Poi che nel viso a certi li occhi porsi, ne` quali `l doloroso foco casca, non ne conobbi alcun; ma io m`accorsi  che dal collo a ciascun pendea una tasca ch`avea certo colore e certo segno, e quindi par che `l loro occhio si pasca.  E com`io riguardando tra lor vegno, in una borsa gialla vidi azzurro che d`un leone avea faccia e contegno.  Poi, procedendo di mio sguardo il curro, vidine un`altra come sangue rossa, mostrando un`oca bianca più che burro.  E un che d`una scrofa azzurra e grossa segnato avea lo suo sacchetto bianco, mi disse: «Che fai tu in questa fossa?  Or te ne va; e perché se` vivo anco, sappi che `l mio vicin Vitaliano sederà qui dal mio sinistro fianco.  Con questi Fiorentin son padoano: spesse fiate mi `ntronan li orecchi gridando: "Vegna `l cavalier sovrano,  che recherà la tasca con tre becchi!"». Qui distorse la bocca e di fuor trasse la lingua, come bue che `l naso lecchi.  E io, temendo no `l più star crucciasse lui che di poco star m`avea `mmonito, torna`mi in dietro da l`anime lasse.  Trova` il duca mio ch`era salito già su la groppa del fiero animale, e disse a me: «Or sie forte e ardito.  Omai si scende per fatte scale: monta dinanzi, ch`i` voglio esser mezzo, che la coda non possa far male».  Qual è colui che presso ha `l riprezzo de la quartana, c`ha già l`unghie smorte, e triema tutto pur guardando `l rezzo,  tal divenn`io a le parole porte; ma vergogna mi le sue minacce, che innanzi a buon segnor fa servo forte.  I` m`assettai in su quelle spallacce; volli dir, ma la voce non venne com`io credetti: `Fa che tu m`abbracce`.  Ma esso, ch`altra volta mi sovvenne ad altro forse, tosto ch`i` montai con le braccia m`avvinse e mi sostenne;  e disse: «Gerion, moviti omai: le rote larghe e lo scender sia poco: pensa la nova soma che tu hai».  Come la navicella esce di loco in dietro in dietro, quindi si tolse; e poi ch`al tutto si sentì a gioco,  là `v`era `l petto, la coda rivolse, e quella tesa, come anguilla, mosse, e con le branche l`aere a raccolse.  Maggior paura non credo che fosse quando Fetonte abbandonò li freni, per che `l ciel, come pare ancor, si cosse;  né quando Icaro misero le reni sentì spennar per la scaldata cera, gridando il padre a lui «Mala via tieni!»,  che fu la mia, quando vidi ch`i` era ne l`aere d`ogne parte, e vidi spenta ogne veduta fuor che de la fera.  Ella sen va notando lenta lenta: rota e discende, ma non me n`accorgo se non che al viso e di sotto mi venta.  Io sentia già da la man destra il gorgo far sotto noi un orribile scroscio, per che con li occhi `n giù la testa sporgo.  Allor fu` io più timido a lo stoscio, però ch`i` vidi fuochi e senti` pianti; ond`io tremando tutto mi raccoscio.  E vidi poi, ché nol vedea davanti, lo scendere e `l girar per li gran mali che s`appressavan da diversi canti.  Come `l falcon ch`è stato assai su l`ali, che sanza veder logoro o uccello fa dire al falconiere «Omè, tu cali!»,  discende lasso onde si move isnello, per cento rote, e da lunge si pone dal suo maestro, disdegnoso e fello;  così ne puose al fondo Gerione al piè al piè de la stagliata rocca e, discarcate le nostre persone,  si dileguò come da corda cocca. Inferno: Canto XVIII  Luogo è in inferno detto Malebolge, tutto di pietra di color ferrigno, come la cerchia che dintorno il volge.  Nel dritto mezzo del campo maligno vaneggia un pozzo assai largo e profondo, di cui suo loco dicerò l`ordigno.  Quel cinghio che rimane adunque è tondo tra `l pozzo e `l piè de l`alta ripa dura, e ha distinto in dieci valli il fondo.  Quale, dove per guardia de le mura più e più fossi cingon li castelli, la parte dove son rende figura,  tale imagine quivi facean quelli; e come a tai fortezze da` lor sogli a la ripa di fuor son ponticelli,  così da imo de la roccia scogli movien che ricidien li argini e ` fossi infino al pozzo che i tronca e raccogli.  In questo luogo, de la schiena scossi di Gerion, trovammoci; e `l poeta tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.  A la man destra vidi nova pieta, novo tormento e novi frustatori, di che la prima bolgia era repleta.  Nel fondo erano ignudi i peccatori; dal mezzo in qua ci venien verso `l volto, di con noi, ma con passi maggiori,  come i Roman per l`essercito molto, l`anno del giubileo, su per lo ponte hanno a passar la gente modo colto,  che da l`un lato tutti hanno la fronte verso `l castello e vanno a Santo Pietro; da l`altra sponda vanno verso `l monte.  Di qua, di là, su per lo sasso tetro vidi demon cornuti con gran ferze, che li battien crudelmente di retro.  Ahi come facean lor levar le berze a le prime percosse! già nessuno le seconde aspettava le terze.  Mentr`io andava, li occhi miei in uno furo scontrati; e io tosto dissi: «Già di veder costui non son digiuno».  Per ch`io a figurarlo i piedi affissi; e `l dolce duca meco si ristette, e assentio ch`alquanto in dietro gissi.  E quel frustato celar si credette bassando `l viso; ma poco li valse, ch`io dissi: «O tu che l`occhio a terra gette,  se le fazion che porti non son false, Venedico se` tu Caccianemico. Ma che ti mena a pungenti salse?».  Ed elli a me: «Mal volentier lo dico; ma sforzami la tua chiara favella, che mi fa sovvenir del mondo antico.  I` fui colui che la Ghisolabella condussi a far la voglia del marchese, come che suoni la sconcia novella.  E non pur io qui piango bolognese; anzi n`è questo luogo tanto pieno, che tante lingue non son ora apprese  a dicer `sipa` tra Sàvena e Reno; e se di ciò vuoi fede o testimonio, rècati a mente il nostro avaro seno».  Così parlando il percosse un demonio de la sua scuriada, e disse: «Via, ruffian! qui non son femmine da conio».  I` mi raggiunsi con la scorta mia; poscia con pochi passi divenimmo `v`uno scoglio de la ripa uscia.  Assai leggeramente quel salimmo; e vòlti a destra su per la sua scheggia, da quelle cerchie etterne ci partimmo.  Quando noi fummo dov`el vaneggia di sotto per dar passo a li sferzati, lo duca disse: «Attienti, e fa che feggia  lo viso in te di quest`altri mal nati, ai quali ancor non vedesti la faccia però che son con noi insieme andati».  Del vecchio ponte guardavam la traccia che venìa verso noi da l`altra banda, e che la ferza similmente scaccia.  E `l buon maestro, sanza mia dimanda, mi disse: «Guarda quel grande che vene, e per dolor non par lagrime spanda:  quanto aspetto reale ancor ritene! Quelli è Iasón, che per cuore e per senno li Colchi del monton privati féne.  Ello passò per l`isola di Lenno, poi che l`ardite femmine spietate tutti li maschi loro a morte dienno.  Ivi con segni e con parole ornate Isifile ingannò, la giovinetta che prima avea tutte l`altre ingannate.  Lasciolla quivi, gravida, soletta; tal colpa a tal martiro lui condanna; e anche di Medea si fa vendetta.  Con lui sen va chi da tal parte inganna: e questo basti de la prima valle sapere e di color che `n assanna».  Già eravam `ve lo stretto calle con l`argine secondo s`incrocicchia, e fa di quello ad un altr`arco spalle.  Quindi sentimmo gente che si nicchia
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