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Dante Alighieri - Purgatorio (Italian)Dante Alighieri - Purgatorio (Italian)
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 Ma dimmi, se tu sai, perché tai crolli diè dianzi `l monte, e perché tutto ad una parve gridare infino a` suoi piè molli».  Sì mi diè, dimandando, per la cruna del mio disio, che pur con la speranza si fece la mia sete men digiuna.  Quei cominciò: «Cosa non è che sanza ordine senta la religione de la montagna, o che sia fuor d`usanza.  Libero è qui da ogne alterazione: di quel che `l ciel da in riceve esser ci puote, e non d`altro, cagione.  Per che non pioggia, non grando, non neve, non rugiada, non brina più cade che la scaletta di tre gradi breve;  nuvole spesse non paion rade, coruscar, figlia di Taumante, che di cangia sovente contrade;  secco vapor non surge più avante ch`al sommo d`i tre gradi ch`io parlai, dov`ha `l vicario di Pietro le piante.  Trema forse più giù poco o assai; ma per vento che `n terra si nasconda, non so come, qua non tremò mai.  Tremaci quando alcuna anima monda sentesi, che surga o che si mova per salir sù; e tal grido seconda.  De la mondizia sol voler fa prova, che, tutto libero a mutar convento, l`alma sorprende, e di voler le giova.  Prima vuol ben, ma non lascia il talento che divina giustizia, contra voglia, come fu al peccar, pone al tormento.  E io, che son giaciuto a questa doglia cinquecent`anni e più, pur mo sentii libera volontà di miglior soglia:  però sentisti il tremoto e li pii spiriti per lo monte render lode a quel Segnor, che tosto li `nvii».  Così ne disse; e però ch`el si gode tanto del ber quant`è grande la sete. non saprei dir quant`el mi fece prode.  E `l savio duca: «Omai veggio la rete che qui v`impiglia e come si scalappia, perché ci trema e di che congaudete.  Ora chi fosti, piacciati ch`io sappia, e perché tanti secoli giaciuto qui se`, ne le parole tue mi cappia».  «Nel tempo che `l buon Tito, con l`aiuto del sommo rege, vendicò le fóra ond`uscì `l sangue per Giuda venduto,  col nome che più dura e più onora era io di là», rispuose quello spirto, «famoso assai, ma non con fede ancora.  Tanto fu dolce mio vocale spirto, che, tolosano, a mi trasse Roma, dove mertai le tempie ornar di mirto.  Stazio la gente ancor di mi noma: cantai di Tebe, e poi del grande Achille; ma caddi in via con la seconda soma.  Al mio ardor fuor seme le faville, che mi scaldar, de la divina fiamma onde sono allumati più di mille;  de l`Eneida dico, la qual mamma fummi e fummi nutrice poetando: sanz`essa non fermai peso di dramma.  E per esser vivuto di quando visse Virgilio, assentirei un sole più che non deggio al mio uscir di bando».  Volser Virgilio a me queste parole con viso che, tacendo, disse `Taci`; ma non può tutto la virtù che vuole;  ché riso e pianto son tanto seguaci a la passion di che ciascun si spicca, che men seguon voler ne` più veraci.  Io pur sorrisi come l`uom ch`ammicca; per che l`ombra si tacque, e riguardommi ne li occhi ove `l sembiante più si ficca;  e «Se tanto labore in bene assommi», disse, «perché la tua faccia testeso un lampeggiar di riso dimostrommi?».  Or son io d`una parte e d`altra preso: l`una mi fa tacer, l`altra scongiura ch`io dica; ond`io sospiro, e sono inteso  dal mio maestro, e «Non aver paura», mi dice, «di parlar; ma parla e digli quel ch`e` dimanda con cotanta cura».  Ond`io: «Forse che tu ti maravigli, antico spirto, del rider ch`io fei; ma più d`ammirazion vo` che ti pigli.  Questi che guida in alto li occhi miei, è quel Virgilio dal qual tu togliesti forza a cantar de li uomini e d`i dèi.  Se cagion altra al mio rider credesti, lasciala per non vera, ed esser credi quelle parole che di lui dicesti».  Già s`inchinava ad abbracciar li piedi al mio dottor, ma el li disse: «Frate, non far, ché tu se` ombra e ombra vedi».  Ed ei surgendo: «Or puoi la quantitate comprender de l`amor ch`a te mi scalda, quand`io dismento nostra vanitate,  trattando l`ombre come cosa salda». Purgatorio: Canto XXII  Già era l`angel dietro a noi rimaso, l`angel che n`avea vòlti al sesto giro, avendomi dal viso un colpo raso;  e quei c`hanno a giustizia lor disiro detto n`avea beati, e le sue voci con `sitiunt`, sanz`altro, ciò forniro.  E io più lieve che per l`altre foci m`andava, che sanz`alcun labore seguiva in li spiriti veloci;  quando Virgilio incominciò: «Amore, acceso di virtù, sempre altro accese, pur che la fiamma sua paresse fore;  onde da l`ora che tra noi discese nel limbo de lo `nferno Giovenale, che la tua affezion mi palese,  mia benvoglienza inverso te fu quale più strinse mai di non vista persona, ch`or mi parran corte queste scale.  Ma dimmi, e come amico mi perdona se troppa sicurtà m`allarga il freno, e come amico omai meco ragiona:  come poté trovar dentro al tuo seno loco avarizia, tra cotanto senno di quanto per tua cura fosti pieno?».  Queste parole Stazio mover fenno un poco a riso pria; poscia rispuose: «Ogne tuo dir d`amor m`è caro cenno.  Veramente più volte appaion cose che danno a dubitar falsa matera per le vere ragion che son nascose.  La tua dimanda tuo creder m`avvera esser ch`i` fossi avaro in l`altra vita, forse per quella cerchia dov`io era.  Or sappi ch`avarizia fu partita troppo da me, e questa dismisura migliaia di lunari hanno punita.  E se non fosse ch`io drizzai mia cura, quand`io intesi dove tu chiame, crucciato quasi a l`umana natura:  `Per che non reggi tu, o sacra fame de l`oro, l`appetito de` mortali?`, voltando sentirei le giostre grame.  Allor m`accorsi che troppo aprir l`ali potean le mani a spendere, e pente`mi così di quel come de li altri mali.  Quanti risurgeran coi crini scemi per ignoranza, che di questa pecca toglie `l penter vivendo e ne li stremi!  E sappie che la colpa che rimbecca per dritta opposizione alcun peccato, con esso insieme qui suo verde secca;  però, s`io son tra quella gente stato che piange l`avarizia, per purgarmi, per lo contrario suo m`è incontrato».  «Or quando tu cantasti le crude armi de la doppia trestizia di Giocasta», disse `l cantor de` buccolici carmi,  «per quello che Cliò teco tasta, non par che ti facesse ancor fedele la fede, sanza qual ben far non basta.  Se così è, qual sole o quai candele ti stenebraron sì, che tu drizzasti poscia di retro al pescator le vele?».  Ed elli a lui: «Tu prima m`inviasti verso Parnaso a ber ne le sue grotte, e prima appresso Dio m`alluminasti.  Facesti come quei che va di notte, che porta il lume dietro e non giova, ma dopo fa le persone dotte,  quando dicesti: `Secol si rinova; torna giustizia e primo tempo umano, e progenie scende da ciel nova`.  Per te poeta fui, per te cristiano: ma perché veggi mei ciò ch`io disegno, a colorare stenderò la mano:  Già era `l mondo tutto quanto pregno de la vera credenza, seminata per li messaggi de l`etterno regno;  e la parola tua sopra toccata si consonava a` nuovi predicanti; ond`io a visitarli presi usata.  Vennermi poi parendo tanto santi, che, quando Domizian li perseguette, sanza mio lagrimar non fur lor pianti;  e mentre che di per me si stette, io li sovvenni, e i lor dritti costumi fer dispregiare a me tutte altre sette.  E pria ch`io conducessi i Greci a` fiumi di Tebe poetando, ebb`io battesmo; ma per paura chiuso cristian fu`mi,  lungamente mostrando paganesmo; e questa tepidezza il quarto cerchio cerchiar mi più che `l quarto centesmo.  Tu dunque, che levato hai il coperchio che m`ascondeva quanto bene io dico, mentre che del salire avem soverchio,  dimmi dov`è Terrenzio nostro antico, Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai: dimmi se son dannati, e in qual vico».  «Costoro e Persio e io e altri assai», rispuose il duca mio, «siam con quel Greco che le Muse lattar più ch`altri mai,  nel primo cinghio del carcere cieco: spesse fiate ragioniam del monte che sempre ha le nutrice nostre seco.  Euripide v`è nosco e Antifonte, Simonide, Agatone e altri piùe Greci che già di lauro ornar la fronte.  Quivi si veggion de le genti tue Antigone, Deifile e Argia, e Ismene trista come fue.  Védeisi quella che mostrò Langia; èvvi la figlia di Tiresia, e Teti e con le suore sue Deidamia».  Tacevansi ambedue già li poeti, di novo attenti a riguardar dintorno, liberi da saliri e da pareti;  e già le quattro ancelle eran del giorno rimase a dietro, e la quinta era al temo, drizzando pur in l`ardente corno,  quando il mio duca: «Io credo ch`a lo stremo le destre spalle volger ne convegna, girando il monte come far solemo».  Così l`usanza fu nostra insegna, e prendemmo la via con men sospetto per l`assentir di quell`anima degna.  Elli givan dinanzi, e io soletto di retro, e ascoltava i lor sermoni, ch`a poetar mi davano intelletto.  Ma tosto ruppe le dolci ragioni un alber che trovammo in mezza strada, con pomi a odorar soavi e buoni;  e come abete in alto si digrada di ramo in ramo, così quello in giuso, cred`io, perché persona non vada.  Dal lato onde `l cammin nostro era chiuso, cadea de l`alta roccia un liquor chiaro e si spandeva per le foglie suso.  Li due poeti a l`alber s`appressaro; e una voce per entro le fronde gridò: «Di questo cibo avrete caro».  Poi disse: «Più pensava Maria onde fosser le nozze orrevoli e intere, ch`a la sua bocca, ch`or per voi risponde.  E le Romane antiche, per lor bere, contente furon d`acqua; e Daniello dispregiò cibo e acquistò savere.  Lo secol primo, quant`oro fu bello, savorose con fame le ghiande, e nettare con sete ogne ruscello.  Mele e locuste furon le vivande che nodriro il Batista nel diserto; per ch`elli è glorioso e tanto grande  quanto per lo Vangelio v`è aperto». Purgatorio: Canto XXIII  Mentre che li occhi per la fronda verde ficcava io come far suole chi dietro a li uccellin sua vita perde,  lo più che padre mi dicea: «Figliuole, vienne oramai, ché `l tempo che n`è imposto più utilmente compartir si vuole».  Io volsi `l viso, e `l passo non men tosto, appresso i savi, che parlavan sìe, che l`andar mi facean di nullo costo.  Ed ecco piangere e cantar s`udìe `Labia mea, Domine` per modo tal, che diletto e doglia parturìe.  «O dolce padre, che è quel ch`i` odo?», comincia` io; ed elli: «Ombre che vanno forse di lor dover solvendo il nodo».  Sì come i peregrin pensosi fanno, giugnendo per cammin gente non nota, che si volgono ad essa e non restanno,  così di retro a noi, più tosto mota, venendo e trapassando ci ammirava d`anime turba tacita e devota.  Ne li occhi era ciascuna oscura e cava, palida ne la faccia, e tanto scema, che da l`ossa la pelle s`informava.  Non credo che così a buccia strema Erisittone fosse fatto secco, per digiunar, quando più n`ebbe tema.  Io dicea fra me stesso pensando: `Ecco la gente che perdé Ierusalemme, quando Maria nel figlio diè di becco!`  Parean l`occhiaie anella sanza gemme: chi nel viso de li uomini legge `omo` ben avria quivi conosciuta l`emme.  Chi crederebbe che l`odor d`un pomo governasse, generando brama, e quel d`un`acqua, non sappiendo como?  Già era in ammirar che li affama, per la cagione ancor non manifesta di lor magrezza e di lor trista squama,  ed ecco del profondo de la testa volse a me li occhi un`ombra e guardò fiso; poi gridò forte: «Qual grazia m`è questa?».  Mai non l`avrei riconosciuto al viso; ma ne la voce sua mi fu palese ciò che l`aspetto in avea conquiso.  Questa favilla tutta mi raccese mia conoscenza a la cangiata labbia, e ravvisai la faccia di Forese.  «Deh, non contendere a l`asciutta scabbia che mi scolora», pregava, «la pelle, a difetto di carne ch`io abbia;  ma dimmi il ver di te, di` chi son quelle due anime che ti fanno scorta; non rimaner che tu non mi favelle!».  «La faccia tua, ch`io lagrimai già morta, mi di pianger mo non minor doglia», rispuos`io lui, «veggendola torta.  Però mi dì, per Dio, che vi sfoglia; non mi far dir mentr`io mi maraviglio, ché mal può dir chi è pien d`altra voglia».  Ed elli a me: «De l`etterno consiglio cade vertù ne l`acqua e ne la pianta rimasa dietro ond`io m`assottiglio.  Tutta esta gente che piangendo canta per seguitar la gola oltra misura, in fame e `n sete qui si rifà santa.  Di bere e di mangiar n`accende cura l`odor ch`esce del pomo e de lo sprazzo che si distende su per sua verdura.  E non pur una volta, questo spazzo girando, si rinfresca nostra pena: io dico pena, e dovrìa dir sollazzo,  ché quella voglia a li alberi ci mena che menò Cristo lieto a dire `Elì`, quando ne liberò con la sua vena».  E io a lui: «Forese, da quel nel qual mutasti mondo a miglior vita, cinq`anni non son vòlti infino a qui.  Se prima fu la possa in te finita di peccar più, che sovvenisse l`ora del buon dolor ch`a Dio ne rimarita,  come se` tu qua venuto ancora? Io ti credea trovar giù di sotto dove tempo per tempo si ristora».  Ond`elli a me: «Sì tosto m`ha condotto a ber lo dolce assenzo d`i martìri la Nella mia con suo pianger dirotto.  Con suoi prieghi devoti e con sospiri tratto m`ha de la costa ove s`aspetta, e liberato m`ha de li altri giri.  Tanto è a Dio più cara e più diletta la vedovella mia, che molto amai, quanto in bene operare è più soletta;  ché la Barbagia di Sardigna assai ne le femmine sue più è pudica che la Barbagia dov`io la lasciai.  O dolce frate, che vuo` tu ch`io dica? Tempo futuro m`è già nel cospetto, cui non sarà quest`ora molto antica,  nel qual sarà in pergamo interdetto a le sfacciate donne fiorentine l`andar mostrando con le poppe il petto.  Quai barbare fuor mai, quai saracine, cui bisognasse, per farle ir coperte, o spiritali o altre discipline?  Ma se le svergognate fosser certe di quel che `l ciel veloce loro ammanna, già per urlare avrian le bocche aperte;  ché se l`antiveder qui non m`inganna, prima fien triste che le guance impeli colui che mo si consola con nanna.  Deh, frate, or fa che più non mi ti celi! vedi che non pur io, ma questa gente tutta rimira dove `l sol veli».  Per ch`io a lui: «Se tu riduci a mente qual fosti meco, e qual io teco fui, ancor fia grave il memorar presente.  Di quella vita mi volse costui che mi va innanzi, l`altr`ier, quando tonda vi si mostrò la suora di colui»,  e `l sol mostrai; «costui per la profonda notte menato m`ha d`i veri morti con questa vera carne che `l seconda.  Indi m`han tratto li suoi conforti, salendo e rigirando la montagna che drizza voi che `l mondo fece torti.  Tanto dice di farmi sua compagna, che io sarò dove fia Beatrice; quivi convien che sanza lui rimagna.  Virgilio è questi che così mi dice», e addita`lo; «e quest`altro è quell`ombra per cui scosse dianzi ogne pendice  lo vostro regno, che da lo sgombra». Purgatorio: Canto XXIV  Né `l dir l`andar, l`andar lui più lento facea, ma ragionando andavam forte, come nave pinta da buon vento;  e l`ombre, che parean cose rimorte, per le fosse de li occhi ammirazione traean di me, di mio vivere accorte.  E io, continuando al mio sermone, dissi: «Ella sen va forse più tarda che non farebbe, per altrui cagione.  Ma dimmi, se tu sai, dov`è Piccarda; dimmi s`io veggio da notar persona tra questa gente che mi riguarda».  «La mia sorella, che tra bella e buona non so qual fosse più, triunfa lieta ne l`alto Olimpo già di sua corona».  Sì disse prima; e poi: «Qui non si vieta di nominar ciascun, da ch`è munta nostra sembianza via per la dieta.  Questi», e mostrò col dito, «è Bonagiunta, Bonagiunta da Lucca; e quella faccia di da lui più che l`altre trapunta  ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia: dal Torso fu, e purga per digiuno l`anguille di Bolsena e la vernaccia».  Molti altri mi nomò ad uno ad uno; e del nomar parean tutti contenti, ch`io però non vidi un atto bruno.  Vidi per fame a vòto usar li denti Ubaldin da la Pila e Bonifazio che pasturò col rocco molte genti.  Vidi messer Marchese, ch`ebbe spazio già di bere a Forlì con men secchezza, e fu tal, che non si sentì sazio.  Ma come fa chi guarda e poi s`apprezza più d`un che d`altro, fei a quel da Lucca, che più parea di me aver contezza.  El mormorava; e non so che «Gentucca» sentiv`io là, ov`el sentia la piaga de la giustizia che li pilucca.  «O anima», diss`io, «che par vaga di parlar meco, fa ch`io t`intenda, e te e me col tuo parlare appaga».  «Femmina è nata, e non porta ancor benda», cominciò el, «che ti farà piacere la mia città, come ch`om la riprenda.  Tu te n`andrai con questo antivedere: se nel mio mormorar prendesti errore, dichiareranti ancor le cose vere.  Ma s`i` veggio qui colui che fore trasse le nove rime, cominciando `Donne ch`avete intelletto d`amore`».  E io a lui: «I` mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch`e` ditta dentro vo significando».  «O frate, issa vegg`io», diss`elli, «il nodo che `l Notaro e Guittone e me ritenne di qua dal dolce stil novo ch`i` odo!  Io veggio ben come le vostre penne di retro al dittator sen vanno strette, che de le nostre certo non avvenne;  e qual più a gradire oltre si mette, non vede più da l`uno a l`altro stilo»; e, quasi contentato, si tacette.  Come li augei che vernan lungo `l Nilo, alcuna volta in aere fanno schiera, poi volan più a fretta e vanno in filo,  così tutta la gente che era, volgendo `l viso, raffrettò suo passo, e per magrezza e per voler leggera.  E come l`uom che di trottare è lasso, lascia andar li compagni, e passeggia fin che si sfoghi l`affollar del casso,  sì lasciò trapassar la santa greggia Forese, e dietro meco sen veniva, dicendo: «Quando fia ch`io ti riveggia?».  «Non so», rispuos`io lui, «quant`io mi viva; ma già non fia il tornar mio tantosto, ch`io non sia col voler prima a la riva;  però che `l loco u` fui a viver posto, di giorno in giorno più di ben si spolpa, e a trista ruina par disposto».  «Or va», diss`el; «che quei che più n`ha colpa, vegg`io a coda d`una bestia tratto inver` la valle ove mai non si scolpa.  La bestia ad ogne passo va più ratto, crescendo sempre, fin ch`ella il percuote, e lascia il corpo vilmente disfatto.  Non hanno molto a volger quelle ruote», e drizzò li ochi al ciel, «che ti fia chiaro ciò che `l mio dir più dichiarar non puote.  Tu ti rimani omai; ché `l tempo è caro in questo regno, ch`io perdo troppo venendo teco a paro a paro».  Qual esce alcuna volta di gualoppo lo cavalier di schiera che cavalchi, e va per farsi onor del primo intoppo,  tal si partì da noi con maggior valchi; e io rimasi in via con esso i due che fuor del mondo gran marescalchi.  E quando innanzi a noi intrato fue, che li occhi miei si fero a lui seguaci, come la mente a le parole sue,  parvermi i rami gravidi e vivaci d`un altro pomo, e non molto lontani per esser pur allora vòlto in laci.  Vidi gente sott`esso alzar le mani e gridar non so che verso le fronde, quasi bramosi fantolini e vani,  che pregano, e `l pregato non risponde, ma, per fare esser ben la voglia acuta, tien alto lor disio e nol nasconde.  Poi si partì come ricreduta; e noi venimmo al grande arbore adesso, che tanti prieghi e lagrime rifiuta.  «Trapassate oltre sanza farvi presso: legno è più che fu morso da Eva, e questa pianta si levò da esso».  Sì tra le frasche non so chi diceva; per che Virgilio e Stazio e io, ristretti, oltre andavam dal lato che si leva.  «Ricordivi», dicea, «d`i maladetti nei nuvoli formati, che, satolli, Teseo combatter co` doppi petti;  e de li Ebrei ch`al ber si mostrar molli, per che no i volle Gedeon compagni, quando inver` Madian discese i colli».  Sì accostati a l`un d`i due vivagni passammo, udendo colpe de la gola seguite già da miseri guadagni.  Poi, rallargati per la strada sola, ben mille passi e più ci portar oltre, contemplando ciascun sanza parola.  «Che andate pensando voi sol tre?». sùbita voce disse; ond`io mi scossi come fan bestie spaventate e poltre.  Drizzai la testa per veder chi fossi; e già mai non si videro in fornace vetri o metalli lucenti e rossi,  com`io vidi un che dicea: «S`a voi piace montare in sù, qui si convien dar volta; quinci si va chi vuole andar per pace».  L`aspetto suo m`avea la vista tolta; per ch`io mi volsi dietro a` miei dottori, com`om che va secondo ch`elli ascolta.  E quale, annunziatrice de li albori, l`aura di maggio movesi e olezza, tutta impregnata da l`erba e da` fiori;  tal mi senti` un vento dar per mezza la fronte, e ben senti` mover la piuma, che sentir d`ambrosia l`orezza.  E senti` dir: «Beati cui alluma tanto di grazia, che l`amor del gusto nel petto lor troppo disir non fuma,  esuriendo sempre quanto è giusto!». Purgatorio: Canto XXV  Ora era onde `l salir non volea storpio; ché `l sole avea il cerchio di merigge lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio:  per che, come fa l`uom che non s`affigge ma vassi a la via sua, che che li appaia, se di bisogno stimolo il trafigge,  così intrammo noi per la callaia, uno innanzi altro prendendo la scala che per artezza i salitor dispaia.  E quale il cicognin che leva l`ala per voglia di volare, e non s`attenta d`abbandonar lo nido, e giù la cala;  tal era io con voglia accesa e spenta di dimandar, venendo infino a l`atto che fa colui ch`a dicer s`argomenta.  Non lasciò, per l`andar che fosse ratto, lo dolce padre mio, ma disse: «Scocca l`arco del dir, che `nfino al ferro hai tratto».  Allor sicuramente apri` la bocca e cominciai: «Come si può far magro dove l`uopo di nodrir non tocca?».  «Se t`ammentassi come Meleagro si consumò al consumar d`un stizzo, non fora», disse, «a te questo agro;  e se pensassi come, al vostro guizzo, guizza dentro a lo specchio vostra image, ciò che par duro ti parrebbe vizzo.  Ma perché dentro a tuo voler t`adage, ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego che sia or sanator de le tue piage».  «Se la veduta etterna li dislego», rispuose Stazio, «là dove tu sie, discolpi me non potert`io far nego».  Poi cominciò: «Se le parole mie, figlio, la mente tua guarda e riceve, lume ti fiero al come che tu die.  Sangue perfetto, che poi non si beve da l`assetate vene, e si rimane quasi alimento che di mensa leve,  prende nel core a tutte membra umane virtute informativa, come quello ch`a farsi quelle per le vene vane.  Ancor digesto, scende ov`è più bello tacer che dire; e quindi poscia geme sovr`altrui sangue in natural vasello.  Ivi s`accoglie l`uno e l`altro insieme, l`un disposto a patire, e l`altro a fare per lo perfetto loco onde si preme;  e, giunto lui, comincia ad operare coagulando prima, e poi avviva ciò che per sua matera constare.  Anima fatta la virtute attiva qual d`una pianta, in tanto differente, che questa è in via e quella è già a riva,  tanto ovra poi, che già si move e sente, come spungo marino; e indi imprende ad organar le posse ond`è semente.  Or si spiega, figliuolo, or si distende la virtù ch`è dal cor del generante, dove natura a tutte membra intende.  Ma come d`animal divegna fante, non vedi tu ancor: quest`è tal punto, che più savio di te già errante,  sì che per sua dottrina disgiunto da l`anima il possibile intelletto, perché da lui non vide organo assunto.  Apri a la verità che viene il petto; e sappi che, tosto come al feto l`articular del cerebro è perfetto,  lo motor primo a lui si volge lieto sovra tant`arte di natura, e spira spirito novo, di vertù repleto,  che ciò che trova attivo quivi, tira in sua sustanzia, e fassi un`alma sola, che vive e sente e in rigira.  E perché meno ammiri la parola, guarda il calor del sole che si fa vino, giunto a l`omor che de la vite cola.  Quando Lachesìs non ha più del lino, solvesi da la carne, e in virtute ne porta seco e l`umano e `l divino:  l`altre potenze tutte quante mute; memoria, intelligenza e volontade in atto molto più che prima agute.  Sanza restarsi per stessa cade mirabilmente a l`una de le rive; quivi conosce prima le sue strade.  Tosto che loco la circunscrive, la virtù formativa raggia intorno così e quanto ne le membra vive.  E come l`aere, quand`è ben piorno, per l`altrui raggio che `n si reflette, di diversi color diventa addorno;  così l`aere vicin quivi si mette in quella forma ch`è in lui suggella virtualmente l`alma che ristette;  e simigliante poi a la fiammella che segue il foco `vunque si muta, segue lo spirto sua forma novella.  Però che quindi ha poscia sua paruta, è chiamata ombra; e quindi organa poi ciascun sentire infino a la veduta.  Quindi parliamo e quindi ridiam noi; quindi facciam le lagrime e ` sospiri che per lo monte aver sentiti puoi.  Secondo che ci affiggono i disiri e li altri affetti, l`ombra si figura; e quest`è la cagion di che tu miri».  E già venuto a l`ultima tortura s`era per noi, e vòlto a la man destra, ed eravamo attenti ad altra cura.  Quivi la ripa fiamma in fuor balestra, e la cornice spira fiato in suso che la reflette e via da lei sequestra;  ond`ir ne convenia dal lato schiuso ad uno ad uno; e io temea `l foco quinci, e quindi temeva cader giuso.  Lo duca mio dicea: «Per questo loco si vuol tenere a li occhi stretto il freno, però ch`errar potrebbesi per poco».  `Summae Deus clementiae` nel seno al grande ardore allora udi` cantando, che di volger mi caler non meno;  e vidi spirti per la fiamma andando; per ch`io guardava a loro e a` miei passi compartendo la vista a quando a quando.  Appresso il fine ch`a quell`inno fassi, gridavano alto: `Virum non cognosco`; indi ricominciavan l`inno bassi.  Finitolo, anco gridavano: «Al bosco si tenne Diana, ed Elice caccionne che di Venere avea sentito il tòsco».  Indi al cantar tornavano; indi donne gridavano e mariti che fuor casti come virtute e matrimonio imponne.  E questo modo credo che lor basti per tutto il tempo che `l foco li abbruscia: con tal cura conviene e con tai pasti  che la piaga da sezzo si ricuscia. Purgatorio: Canto XXVI  Mentre che per l`orlo, uno innanzi altro, ce n`andavamo, e spesso il buon maestro diceami: «Guarda: giovi ch`io ti scaltro»;  feriami il sole in su l`omero destro, che già, raggiando, tutto l`occidente mutava in bianco aspetto di cilestro;  e io facea con l`ombra più rovente parer la fiamma; e pur a tanto indizio vidi molt`ombre, andando, poner mente.  Questa fu la cagion che diede inizio loro a parlar di me; e cominciarsi a dir: «Colui non par corpo fittizio»;  poi verso me, quanto potean farsi, certi si fero, sempre con riguardo di non uscir dove non fosser arsi.  «O tu che vai, non per esser più tardo, ma forse reverente, a li altri dopo, rispondi a me che `n sete e `n foco ardo.  Né solo a me la tua risposta è uopo; ché tutti questi n`hanno maggior sete che d`acqua fredda Indo o Etiopo.  Dinne com`è che fai di te parete al sol, pur come tu non fossi ancora di morte intrato dentro da la rete».  Sì mi parlava un d`essi; e io mi fora già manifesto, s`io non fossi atteso ad altra novità ch`apparve allora;  ché per lo mezzo del cammino acceso venne gente col viso incontro a questa, la qual mi fece a rimirar sospeso.  Lì veggio d`ogne parte farsi presta ciascun`ombra e basciarsi una con una sanza restar, contente a brieve festa;  così per entro loro schiera bruna s`ammusa l`una con l`altra formica, forse a spiar lor via e lor fortuna.  Tosto che parton l`accoglienza amica, prima che `l primo passo trascorra, sopragridar ciascuna s`affatica:  la nova gente: «Soddoma e Gomorra»; e l`altra: «Ne la vacca entra Pasife, perché `l torello a sua lussuria corra».  Poi, come grue ch`a le montagne Rife volasser parte, e parte inver` l`arene, queste del gel, quelle del sole schife,  l`una gente sen va, l`altra sen vene; e tornan, lagrimando, a` primi canti e al gridar che più lor si convene;  e raccostansi a me, come davanti, essi medesmi che m`avean pregato, attenti ad ascoltar ne` lor sembianti.  Io, che due volte avea visto lor grato, incominciai: «O anime sicure d`aver, quando che sia, di pace stato,  non son rimase acerbe mature le membra mie di là, ma son qui meco col sangue suo e con le sue giunture.  Quinci vo per non esser più cieco; donna è di sopra che m`acquista grazia, per che `l mortal per vostro mondo reco.  Ma se la vostra maggior voglia sazia tosto divegna, che `l ciel v`alberghi ch`è pien d`amore e più ampio si spazia,  ditemi, acciò ch`ancor carte ne verghi, chi siete voi, e chi è quella turba che se ne va di retro a` vostri terghi».  Non altrimenti stupido si turba lo montanaro, e rimirando ammuta, quando rozzo e salvatico s`inurba,  che ciascun`ombra fece in sua paruta; ma poi che furon di stupore scarche, lo qual ne li alti cuor tosto s`attuta,  «Beato te, che de le nostre marche», ricominciò colei che pria m`inchiese, «per morir meglio, esperienza imbarche!  La gente che non vien con noi, offese di ciò per che già Cesar, triunfando, "Regina" contra chiamar s`intese:  però si parton `Soddoma` gridando, rimproverando a sé, com`hai udito, e aiutan l`arsura vergognando.  Nostro peccato fu ermafrodito; ma perché non servammo umana legge, seguendo come bestie l`appetito,  in obbrobrio di noi, per noi si legge, quando partinci, il nome di colei che s`imbestiò ne le `mbestiate schegge.  Or sai nostri atti e di che fummo rei: se forse a nome vuo` saper chi semo, tempo non è di dire, e non saprei.  Farotti ben di me volere scemo: son Guido Guinizzelli; e già mi purgo per ben dolermi prima ch`a lo stremo».  Quali ne la tristizia di Ligurgo si fer due figli a riveder la madre, tal mi fec`io, ma non a tanto insurgo,  quand`io odo nomar stesso il padre mio e de li altri miei miglior che mai rime d`amore usar dolci e leggiadre;  e sanza udire e dir pensoso andai lunga fiata rimirando lui, né, per lo foco, in più m`appressai.  Poi che di riguardar pasciuto fui, tutto m`offersi pronto al suo servigio con l`affermar che fa credere altrui.  Ed elli a me: «Tu lasci tal vestigio, per quel ch`i` odo, in me, e tanto chiaro, che Leté nol può tòrre far bigio.  Ma se le tue parole or ver giuraro, dimmi che è cagion per che dimostri nel dire e nel guardar d`avermi caro».  E io a lui: «Li dolci detti vostri, che, quanto durerà l`uso moderno, faranno cari ancora i loro incostri».  «O frate», disse, «questi ch`io ti cerno col dito», e additò un spirto innanzi, «fu miglior fabbro del parlar materno.  Versi d`amore e prose di romanzi soverchiò tutti; e lascia dir li stolti che quel di Lemosì credon ch`avanzi.  A voce più ch`al ver drizzan li volti, e così ferman sua oppinione prima ch`arte o ragion per lor s`ascolti.  Così fer molti antichi di Guittone, di grido in grido pur lui dando pregio, fin che l`ha vinto il ver con più persone.  Or se tu hai ampio privilegio, che licito ti sia l`andare al chiostro nel quale è Cristo abate del collegio,  falli per me un dir d`un paternostro, quanto bisogna a noi di questo mondo, dove poter peccar non è più nostro».  Poi, forse per dar luogo altrui secondo che presso avea, disparve per lo foco, come per l`acqua il pesce andando al fondo.  Io mi fei al mostrato innanzi un poco, e dissi ch`al suo nome il mio disire apparecchiava grazioso loco.  El cominciò liberamente a dire: «Tan m`abellis vostre cortes deman, qu`ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.  Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan; consiros vei la passada folor, e vei jausen lo joi qu`esper, denan.  Ara vos prec, per aquella valor que vos guida al som de l`escalina, sovenha vos a temps de ma dolor!».  Poi s`ascose nel foco che li affina. Purgatorio: Canto XXVII  Sì come quando i primi raggi vibra dove il suo fattor lo sangue sparse, cadendo Ibero sotto l`alta Libra,  e l`onde in Gange da nona riarse, stava il sole; onde `l giorno sen giva, come l`angel di Dio lieto ci apparse.  Fuor de la fiamma stava in su la riva, e cantava `Beati mundo corde!`. in voce assai più che la nostra viva.  Poscia «Più non si va, se pria non morde, anime sante, il foco: intrate in esso, e al cantar di non siate sorde»,  ci disse come noi li fummo presso; per ch`io divenni tal, quando lo `ntesi, qual è colui che ne la fossa è messo.  In su le man commesse mi protesi, guardando il foco e imaginando forte umani corpi già veduti accesi.  Volsersi verso me le buone scorte; e Virgilio mi disse: «Figliuol mio, qui può esser tormento, ma non morte.  Ricorditi, ricorditi! E se io sovresso Gerion ti guidai salvo, che farò ora presso più a Dio?  Credi per certo che se dentro a l`alvo di questa fiamma stessi ben mille anni, non ti potrebbe far d`un capel calvo.  E se tu forse credi ch`io t`inganni, fatti ver lei, e fatti far credenza con le tue mani al lembo d`i tuoi panni.  Pon giù omai, pon giù ogni temenza; volgiti in qua e vieni: entra sicuro!». E io pur fermo e contra coscienza.  Quando mi vide star pur fermo e duro, turbato un poco disse: «Or vedi, figlio: tra Beatrice e te è questo muro».  Come al nome di Tisbe aperse il ciglio Piramo in su la morte, e riguardolla, allor che `l gelso diventò vermiglio;  così, la mia durezza fatta solla, mi volsi al savio duca, udendo il nome che ne la mente sempre mi rampolla.  Ond`ei crollò la fronte e disse: «Come! volenci star di qua?»; indi sorrise come al fanciul si fa ch`è vinto al pome.  Poi dentro al foco innanzi mi si mise, pregando Stazio che venisse retro, che pria per lunga strada ci divise.  Sì com`fui dentro, in un bogliente vetro gittato mi sarei per rinfrescarmi, tant`era ivi lo `ncendio sanza metro.  Lo dolce padre mio, per confortarmi, pur di Beatrice ragionando andava, dicendo: «Li occhi suoi già veder parmi».  Guidavaci una voce che cantava di là; e noi, attenti pur a lei, venimmo fuor ove si montava.  `Venite, benedicti Patris mei`, sonò dentro a un lume che era, tal che mi vinse e guardar nol potei.  «Lo sol sen va», soggiunse, «e vien la sera; non v`arrestate, ma studiate il passo, mentre che l`occidente non si annera».  Dritta salia la via per entro `l sasso verso tal parte ch`io toglieva i raggi dinanzi a me del sol ch`era già basso.  E di pochi scaglion levammo i saggi, che `l sol corcar, per l`ombra che si spense, sentimmo dietro e io e li miei saggi.  E pria che `n tutte le sue parti immense fosse orizzonte fatto d`uno aspetto, e notte avesse tutte sue dispense,  ciascun di noi d`un grado fece letto; ché la natura del monte ci affranse la possa del salir più e `l diletto.  Quali si stanno ruminando manse le capre, state rapide e proterve sovra le cime avante che sien pranse,  tacite a l`ombra, mentre che `l sol ferve, guardate dal pastor, che `n su la verga poggiato s`è e lor di posa serve;  e quale il mandrian che fori alberga, lungo il pecuglio suo queto pernotta, guardando perché fiera non lo sperga;  tali eravamo tutti e tre allotta, io come capra, ed ei come pastori, fasciati quinci e quindi d`alta grotta.  Poco parer potea del di fori; ma, per quel poco, vedea io le stelle di lor solere e più chiare e maggiori.  Sì ruminando e mirando in quelle, mi prese il sonno; il sonno che sovente, anzi che `l fatto sia, sa le novelle.  Ne l`ora, credo, che de l`oriente, prima raggiò nel monte Citerea, che di foco d`amor par sempre ardente,  giovane e bella in sogno mi parea donna vedere andar per una landa cogliendo fiori; e cantando dicea:  «Sappia qualunque il mio nome dimanda ch`i` mi son Lia, e vo movendo intorno le belle mani a farmi una ghirlanda.  Per piacermi a lo specchio, qui m`addorno; ma mia suora Rachel mai non si smaga dal suo miraglio, e siede tutto giorno.  Ell`è d`i suoi belli occhi veder vaga com`io de l`addornarmi con le mani; lei lo vedere, e me l`ovrare appaga».  E già per li splendori antelucani, che tanto a` pellegrin surgon più grati, quanto, tornando, albergan men lontani,  le tenebre fuggian da tutti lati, e `l sonno mio con esse; ond`io leva`mi, veggendo i gran maestri già levati.  «Quel dolce pome che per tanti rami cercando va la cura de` mortali, oggi porrà in pace le tue fami».  Virgilio inverso me queste cotali parole usò; e mai non furo strenne che fosser di piacere a queste iguali.  Tanto voler sopra voler mi venne de l`esser sù, ch`ad ogne passo poi al volo mi sentia crescer le penne.  Come la scala tutta sotto noi fu corsa e fummo in su `l grado superno, in me ficcò Virgilio li occhi suoi,  e disse: «Il temporal foco e l`etterno veduto hai, figlio; e se` venuto in parte dov`io per me più oltre non discerno.  Tratto t`ho qui con ingegno e con arte; lo tuo piacere omai prendi per duce; fuor se` de l`erte vie, fuor se` de l`arte.  Vedi lo sol che `n fronte ti riluce; vedi l`erbette, i fiori e li arbuscelli che qui la terra sol da produce.  Mentre che vegnan lieti li occhi belli che, lagrimando, a te venir mi fenno, seder ti puoi e puoi andar tra elli.  Non aspettar mio dir più mio cenno;
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