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Dante Alighieri - Inferno (Italian)Dante Alighieri - Inferno (Italian)
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di qua dal sonno, quand`io vidi un foco ch`emisperio di tenebre vincia.  Di lungi n`eravamo ancora un poco, ma non ch`io non discernessi in parte ch`orrevol gente possedea quel loco.  «O tu ch`onori scienzia e arte, questi chi son c`hanno cotanta onranza, che dal modo de li altri li diparte?».  E quelli a me: «L`onrata nominanza che di lor suona ne la tua vita, grazia acquista in ciel che li avanza».  Intanto voce fu per me udita: «Onorate l`altissimo poeta: l`ombra sua torna, ch`era dipartita».  Poi che la voce fu restata e queta, vidi quattro grand`ombre a noi venire: sembianz`avevan trista lieta.  Lo buon maestro cominciò a dire: «Mira colui con quella spada in mano, che vien dinanzi ai tre come sire:  quelli è Omero poeta sovrano; l`altro è Orazio satiro che vene; Ovidio è `l terzo, e l`ultimo Lucano.  Però che ciascun meco si convene nel nome che sonò la voce sola, fannomi onore, e di ciò fanno bene».  Così vid`i` adunar la bella scola di quel segnor de l`altissimo canto che sovra li altri com`aquila vola.  Da ch`ebber ragionato insieme alquanto, volsersi a me con salutevol cenno, e `l mio maestro sorrise di tanto;  e più d`onore ancora assai mi fenno, ch`e` mi fecer de la loro schiera, ch`io fui sesto tra cotanto senno.  Così andammo infino a la lumera, parlando cose che `l tacere è bello, com`era `l parlar colà dov`era.  Venimmo al piè d`un nobile castello, sette volte cerchiato d`alte mura, difeso intorno d`un bel fiumicello.  Questo passammo come terra dura; per sette porte intrai con questi savi: giugnemmo in prato di fresca verdura.  Genti v`eran con occhi tardi e gravi, di grande autorità ne` lor sembianti: parlavan rado, con voci soavi.  Traemmoci così da l`un de` canti, in loco aperto, luminoso e alto, che veder si potien tutti quanti.  Colà diritto, sovra `l verde smalto, mi fuor mostrati li spiriti magni, che del vedere in me stesso m`essalto.  I` vidi Eletra con molti compagni, tra ` quai conobbi Ettòr ed Enea, Cesare armato con li occhi grifagni.  Vidi Cammilla e la Pantasilea; da l`altra parte, vidi `l re Latino che con Lavina sua figlia sedea.  Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino, Lucrezia, Iulia, Marzia e Corniglia; e solo, in parte, vidi `l Saladino.  Poi ch`innalzai un poco più le ciglia, vidi `l maestro di color che sanno seder tra filosofica famiglia.  Tutti lo miran, tutti onor li fanno: quivi vid`io Socrate e Platone, che `nnanzi a li altri più presso li stanno;  Democrito, che `l mondo a caso pone, Diogenés, Anassagora e Tale, Empedoclès, Eraclito e Zenone;  e vidi il buono accoglitor del quale, Diascoride dico; e vidi Orfeo, Tulio e Lino e Seneca morale;  Euclide geomètra e Tolomeo, Ipocràte, Avicenna e Galieno, Averoìs, che `l gran comento feo.  Io non posso ritrar di tutti a pieno, però che mi caccia il lungo tema, che molte volte al fatto il dir vien meno.  La sesta compagnia in due si scema: per altra via mi mena il savio duca, fuor de la queta, ne l`aura che trema.  E vegno in parte ove non è che luca. Inferno: Canto V  Così discesi del cerchio primaio giù nel secondo, che men loco cinghia, e tanto più dolor, che punge a guaio.  Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: essamina le colpe ne l`intrata; giudica e manda secondo ch`avvinghia.  Dico che quando l`anima mal nata li vien dinanzi, tutta si confessa; e quel conoscitor de le peccata  vede qual loco d`inferno è da essa; cignesi con la coda tante volte quantunque gradi vuol che giù sia messa.  Sempre dinanzi a lui ne stanno molte; vanno a vicenda ciascuna al giudizio; dicono e odono, e poi son giù volte.  «O tu che vieni al doloroso ospizio», disse Minòs a me quando mi vide, lasciando l`atto di cotanto offizio,  «guarda com`entri e di cui tu ti fide; non t`inganni l`ampiezza de l`intrare!». E `l duca mio a lui: «Perché pur gride?  Non impedir lo suo fatale andare: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare».  Or incomincian le dolenti note a farmisi sentire; or son venuto dove molto pianto mi percuote.  Io venni in loco d`ogne luce muto, che mugghia come fa mar per tempesta, se da contrari venti è combattuto.  La bufera infernal, che mai non resta, mena li spirti con la sua rapina; voltando e percotendo li molesta.  Quando giungon davanti a la ruina, quivi le strida, il compianto, il lamento; bestemmian quivi la virtù divina.  Intesi ch`a così fatto tormento enno dannati i peccator carnali, che la ragion sommettono al talento.  E come li stornei ne portan l`ali nel freddo tempo, a schiera larga e piena, così quel fiato li spiriti mali  di qua, di là, di giù, di li mena; nulla speranza li conforta mai, non che di posa, ma di minor pena.  E come i gru van cantando lor lai, faccendo in aere di lunga riga, così vid`io venir, traendo guai,  ombre portate da la detta briga; per ch`i` dissi: «Maestro, chi son quelle genti che l`aura nera gastiga?».  «La prima di color di cui novelle tu vuo` saper», mi disse quelli allotta, «fu imperadrice di molte favelle.  A vizio di lussuria fu rotta, che libito licito in sua legge, per tòrre il biasmo in che era condotta.  Ell`è Semiramìs, di cui si legge che succedette a Nino e fu sua sposa: tenne la terra che `l Soldan corregge.  L`altra è colei che s`ancise amorosa, e ruppe fede al cener di Sicheo; poi è Cleopatràs lussuriosa.  Elena vedi, per cui tanto reo tempo si volse, e vedi `l grande Achille, che con amore al fine combatteo.  Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille ombre mostrommi e nominommi a dito, ch`amor di nostra vita dipartille.  Poscia ch`io ebbi il mio dottore udito nomar le donne antiche e ` cavalieri, pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.  I` cominciai: «Poeta, volontieri parlerei a quei due che `nsieme vanno, e paion al vento esser leggeri».  Ed elli a me: «Vedrai quando saranno più presso a noi; e tu allor li priega per quello amor che i mena, ed ei verranno».  Sì tosto come il vento a noi li piega, mossi la voce: «O anime affannate, venite a noi parlar, s`altri nol niega!».  Quali colombe dal disio chiamate con l`ali alzate e ferme al dolce nido vegnon per l`aere dal voler portate;  cotali uscir de la schiera ov`è Dido, a noi venendo per l`aere maligno, forte fu l`affettuoso grido.  «O animal grazioso e benigno che visitando vai per l`aere perso noi che tignemmo il mondo di sanguigno,  se fosse amico il re de l`universo, noi pregheremmo lui de la tua pace, poi c`hai pietà del nostro mal perverso.  Di quel che udire e che parlar vi piace, noi udiremo e parleremo a voi, mentre che `l vento, come fa, ci tace.  Siede la terra dove nata fui su la marina dove `l Po discende per aver pace co` seguaci sui.  Amor, ch`al cor gentil ratto s`apprende prese costui de la bella persona che mi fu tolta; e `l modo ancor m`offende.  Amor, ch`a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer forte, che, come vedi, ancor non m`abbandona.  Amor condusse noi ad una morte: Caina attende chi a vita ci spense». Queste parole da lor ci fuor porte.  Quand`io intesi quell`anime offense, china` il viso e tanto il tenni basso, fin che `l poeta mi disse: «Che pense?».  Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso, quanti dolci pensier, quanto disio menò costoro al doloroso passo!».  Poi mi rivolsi a loro e parla` io, e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri a lagrimar mi fanno tristo e pio.  Ma dimmi: al tempo d`i dolci sospiri, a che e come concedette Amore che conosceste i dubbiosi disiri?».  E quella a me: «Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria; e ciò sa `l tuo dottore.  Ma s`a conoscer la prima radice del nostro amor tu hai cotanto affetto, dirò come colui che piange e dice.  Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse; soli eravamo e sanza alcun sospetto.  Per più fiate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse.  Quando leggemmo il disiato riso esser basciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso,  la bocca mi basciò tutto tremante. Galeotto fu `l libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante».  Mentre che l`uno spirto questo disse, l`altro piangea; che di pietade io venni men così com`io morisse.  E caddi come corpo morto cade. Inferno: Canto VI  Al tornar de la mente, che si chiuse dinanzi a la pietà d`i due cognati, che di trestizia tutto mi confuse,  novi tormenti e novi tormentati mi veggio intorno, come ch`io mi mova e ch`io mi volga, e come che io guati.  Io sono al terzo cerchio, de la piova etterna, maladetta, fredda e greve; regola e qualità mai non l`è nova.  Grandine grossa, acqua tinta e neve per l`aere tenebroso si riversa; pute la terra che questo riceve.  Cerbero, fiera crudele e diversa, con tre gole caninamente latra sovra la gente che quivi è sommersa.  Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra, e `l ventre largo, e unghiate le mani; graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra.  Urlar li fa la pioggia come cani; de l`un de` lati fanno a l`altro schermo; volgonsi spesso i miseri profani.  Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo, le bocche aperse e mostrocci le sanne; non avea membro che tenesse fermo.  E `l duca mio distese le sue spanne, prese la terra, e con piene le pugna la gittò dentro a le bramose canne.  Qual è quel cane ch`abbaiando agogna, e si racqueta poi che `l pasto morde, ché solo a divorarlo intende e pugna,  cotai si fecer quelle facce lorde de lo demonio Cerbero, che `ntrona l`anime sì, ch`esser vorrebber sorde.  Noi passavam su per l`ombre che adona la greve pioggia, e ponavam le piante sovra lor vanità che par persona.  Elle giacean per terra tutte quante, fuor d`una ch`a seder si levò, ratto ch`ella ci vide passarsi davante.  «O tu che se` per questo `nferno tratto», mi disse, «riconoscimi, se sai: tu fosti, prima ch`io disfatto, fatto».  E io a lui: «L`angoscia che tu hai forse ti tira fuor de la mia mente, che non par ch`i` ti vedessi mai.  Ma dimmi chi tu se` che `n dolente loco se` messo e hai fatta pena, che, s`altra è maggio, nulla è spiacente».  Ed elli a me: «La tua città, ch`è piena d`invidia che già trabocca il sacco, seco mi tenne in la vita serena.  Voi cittadini mi chiamaste Ciacco: per la dannosa colpa de la gola, come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.  E io anima trista non son sola, ché tutte queste a simil pena stanno per simil colpa». E più non parola.  Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno mi pesa sì, ch`a lagrimar mi `nvita; ma dimmi, se tu sai, a che verranno  li cittadin de la città partita; s`alcun v`è giusto; e dimmi la cagione per che l`ha tanta discordia assalita».  E quelli a me: «Dopo lunga tencione verranno al sangue, e la parte selvaggia caccerà l`altra con molta offensione.  Poi appresso convien che questa caggia infra tre soli, e che l`altra sormonti con la forza di tal che testé piaggia.  Alte terrà lungo tempo le fronti, tenendo l`altra sotto gravi pesi, come che di ciò pianga o che n`aonti.  Giusti son due, e non vi sono intesi; superbia, invidia e avarizia sono le tre faville c`hanno i cuori accesi».  Qui puose fine al lagrimabil suono. E io a lui: «Ancor vo` che mi `nsegni, e che di più parlar mi facci dono.  Farinata e `l Tegghiaio, che fuor degni, Iacopo Rusticucci, Arrigo e `l Mosca e li altri ch`a ben far puoser li `ngegni,  dimmi ove sono e fa ch`io li conosca; ché gran disio mi stringe di savere se `l ciel li addolcia, o lo `nferno li attosca».  E quelli: «Ei son tra l`anime più nere: diverse colpe giù li grava al fondo: se tanto scendi, i potrai vedere.  Ma quando tu sarai nel dolce mondo, priegoti ch`a la mente altrui mi rechi: più non ti dico e più non ti rispondo».  Li diritti occhi torse allora in biechi; guardommi un poco, e poi chinò la testa: cadde con essa a par de li altri ciechi.  E `l duca disse a me: «Più non si desta di qua dal suon de l`angelica tromba, quando verrà la nimica podesta:  ciascun rivederà la trista tomba, ripiglierà sua carne e sua figura, udirà quel ch`in etterno rimbomba».  Sì trapassammo per sozza mistura de l`ombre e de la pioggia, a passi lenti, toccando un poco la vita futura;  per ch`io dissi: «Maestro, esti tormenti crescerann`ei dopo la gran sentenza, o fier minori, o saran cocenti?».  Ed elli a me: «Ritorna a tua scienza, che vuol, quanto la cosa è più perfetta, più senta il bene, e così la doglienza.  Tutto che questa gente maladetta in vera perfezion già mai non vada, di più che di qua essere aspetta».  Noi aggirammo a tondo quella strada, parlando più assai ch`i` non ridico; venimmo al punto dove si digrada:  quivi trovammo Pluto, il gran nemico. Inferno: Canto VII  «Pape Satàn, pape Satàn aleppe!~», cominciò Pluto con la voce chioccia; e quel savio gentil, che tutto seppe,  disse per confortarmi: «Non ti noccia la tua paura; ché, poder ch`elli abbia, non ci torrà lo scender questa roccia».  Poi si rivolse a quella `nfiata labbia, e disse: «Taci, maladetto lupo! consuma dentro te con la tua rabbia.  Non è sanza cagion l`andare al cupo: vuolsi ne l`alto, dove Michele la vendetta del superbo strupo».  Quali dal vento le gonfiate vele caggiono avvolte, poi che l`alber fiacca, tal cadde a terra la fiera crudele.  Così scendemmo ne la quarta lacca pigliando più de la dolente ripa che `l mal de l`universo tutto insacca.  Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa nove travaglie e pene quant`io viddi? e perché nostra colpa ne scipa?  Come fa l`onda sovra Cariddi, che si frange con quella in cui s`intoppa, così convien che qui la gente riddi.  Qui vid`i` gente più ch`altrove troppa, e d`una parte e d`altra, con grand`urli, voltando pesi per forza di poppa.  Percoteansi `ncontro; e poscia pur si rivolgea ciascun, voltando a retro, gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?».  Così tornavan per lo cerchio tetro da ogne mano a l`opposito punto, gridandosi anche loro ontoso metro;  poi si volgea ciascun, quand`era giunto, per lo suo mezzo cerchio a l`altra giostra. E io, ch`avea lo cor quasi compunto,  dissi: «Maestro mio, or mi dimostra che gente è questa, e se tutti fuor cherci questi chercuti a la sinistra nostra».  Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci de la mente in la vita primaia, che con misura nullo spendio ferci.  Assai la voce lor chiaro l`abbaia quando vegnono a` due punti del cerchio dove colpa contraria li dispaia.  Questi fuor cherci, che non han coperchio piloso al capo, e papi e cardinali, in cui usa avarizia il suo soperchio».  E io: «Maestro, tra questi cotali dovre` io ben riconoscere alcuni che furo immondi di cotesti mali».  Ed elli a me: «Vano pensiero aduni: la sconoscente vita che i sozzi ad ogne conoscenza or li fa bruni.  In etterno verranno a li due cozzi: questi resurgeranno del sepulcro col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.  Mal dare e mal tener lo mondo pulcro ha tolto loro, e posti a questa zuffa: qual ella sia, parole non ci appulcro.  Or puoi, figliuol, veder la corta buffa d`i ben che son commessi a la fortuna, per che l`umana gente si rabbuffa;  ché tutto l`oro ch`è sotto la luna e che già fu, di quest`anime stanche non poterebbe farne posare una».  «Maestro mio», diss`io, «or mi anche: questa fortuna di che tu mi tocche, che è, che i ben del mondo ha tra branche?».  E quelli a me: «Oh creature sciocche, quanta ignoranza è quella che v`offende! Or vo` che tu mia sentenza ne `mbocche.  Colui lo cui saver tutto trascende, fece li cieli e diè lor chi conduce ch`ogne parte ad ogne parte splende,  distribuendo igualmente la luce. Similemente a li splendor mondani ordinò general ministra e duce  che permutasse a tempo li ben vani di gente in gente e d`uno in altro sangue, oltre la difension d`i senni umani;  per ch`una gente impera e l`altra langue, seguendo lo giudicio di costei, che è occulto come in erba l`angue.  Vostro saver non ha contasto a lei: questa provede, giudica, e persegue suo regno come il loro li altri dèi.  Le sue permutazion non hanno triegue; necessità la fa esser veloce; spesso vien chi vicenda consegue.  Quest`è colei ch`è tanto posta in croce pur da color che le dovrien dar lode, dandole biasmo a torto e mala voce;  ma ella s`è beata e ciò non ode: con l`altre prime creature lieta volve sua spera e beata si gode.  Or discendiamo omai a maggior pieta; già ogne stella cade che saliva quand`io mi mossi, e `l troppo star si vieta».  Noi ricidemmo il cerchio a l`altra riva sovr`una fonte che bolle e riversa per un fossato che da lei deriva.  L`acqua era buia assai più che persa; e noi, in compagnia de l`onde bige, intrammo giù per una via diversa.  In la palude va c`ha nome Stige questo tristo ruscel, quand`è disceso al piè de le maligne piagge grige.  E io, che di mirare stava inteso, vidi genti fangose in quel pantano, ignude tutte, con sembiante offeso.  Queste si percotean non pur con mano, ma con la testa e col petto e coi piedi, troncandosi co` denti a brano a brano.  Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi l`anime di color cui vinse l`ira; e anche vo` che tu per certo credi  che sotto l`acqua è gente che sospira, e fanno pullular quest`acqua al summo, come l`occhio ti dice, u` che s`aggira.  Fitti nel limo, dicon: "Tristi fummo ne l`aere dolce che dal sol s`allegra, portando dentro accidioso fummo:  or ci attristiam ne la belletta negra". Quest`inno si gorgoglian ne la strozza, ché dir nol posson con parola integra».  Così girammo de la lorda pozza grand`arco tra la ripa secca e `l mézzo, con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.  Venimmo al piè d`una torre al da sezzo. Inferno: Canto VIII  Io dico, seguitando, ch`assai prima che noi fossimo al piè de l`alta torre, li occhi nostri n`andar suso a la cima  per due fiammette che i vedemmo porre e un`altra da lungi render cenno tanto ch`a pena il potea l`occhio tòrre.
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